50 anni fa, nell’agosto del 1972, veniva registrato uno storico album dal vivo. Roger Glover, che con il suo basso è sempre stato il motore ritmico dei Deep Purple, lo ha definito il “disco più onesto della storia del rock”. Perché i tecnici che registrarono le canzoni che avrebbero poi composto la scaletta di Made in Japan non fecero altro che posizionare i microfoni e premere il tasto per registrare.

Nessun intervento successivo in studio, nessun tentativo di rendere il suono diverso da quello che gli spettatori avevano ascoltato dal vivo. E all’epoca, nel 1972, questa era già una notizia.  

Tre concerti: il 15 e il 16 agosto a Osaka, e il 17 al Budokan di Tokyo. Ore di musica per selezionare quelle sette canzoni che finirono nel doppio vinile che ha influenzato forse più di ogni altro l’idea di quanta energia potesse sprigionare l’hard rock dal vivo.

Perché in Made in Japan ci sono momenti che ancora oggi fanno parte dell’immaginario collettivo di ogni fan del rock duro che si rispetti. L’urlo di Ian Gillian in Child in Time, il suo call & response con il chitarrista Ritchie Blackmore durante Strange Kind Of Woman. L’assolo di batteria di The Mule. E, ovviamente, quella che è passata alla storia come la miglior versione mai eseguita di Smoke On The Water, la canzone che i Deep Purple avevano composto il giorno dopo l’incendio nel casinò di Montreal, in Svizzera, durante il concerto di Frank Zappa.

Un disco che ancora oggi, a esattamente 50 anni di distanza, definisce la reputazione dei Deep Purple. Una macchina rock, di certo teatrale e alla ricerca dell’effetto facile, che continua a far tremare palazzetti dello sport e stadi in giro per il mondo. Una reputazione basata soprattutto sul coinvolgimento dei fan nello spettacolo.

E parte tutto da quelle tre sere, soprattutto dal concerto al Budokan. Ancora Glover:

“Durante Child in Time 13 mila ragazzi giapponesi cantavano all’unisono con Ian. Eravamo dall’altro lato del mondo e c’era tutta quella gente che conosceva le nostre canzoni parola per parola, riff per riff”.

Già, i riff. Non è difficile da immaginare: ogni chitarrista che si rispetti ha passato come minimo un centinaio di ore chiuso nella sua stanza ad ascoltare, comprendere e riprodurre tutto quello che Ritchie Blackmore ha messo in quel disco. Semplicemente in stato di grazia, il chitarrista fa degli errori occasioni per sviluppare nuove direzioni, suona assoli mai così ispirati, mette i suoi riff alle fondamenta di quel vero e proprio muro di suono che si percepisce ogni volta che si ascolta Made in Japan.

E per ogni disco entrato della storia c’è tutto un apparato di leggende al seguito. La principale che riguarda Made in Japan è quella che riguarda l’esistenza di filmati che documentano i concerti. Tutto falso, mai esistita. Eppure basta fare una piccola ricerca in rete per rendersi conto di quanto potrebbero valere quelle immagini.

In definitiva: se c’è un concerto che ancora oggi orienta gusti e stabilisce le categorie estetiche per i fan dell’hard rock, quello è senza dubbio Made in Japan. Basta considerare solo una cosa: nel gennaio del 2006 i Dream Theater, epigoni contemporanei dei Deep Purple, celebrarono i loro idoli con due concerti in Giappone dove riprodussero in modo esatto – e  pedissequo – la scaletta dell’album.

Tutto perfetto, brillante, suonato a perfezione. Ma nulla a che vedere con il disco originale. Che resta una pietra miliare difficilmente aggirabile, inserito ai primissimi posti di tutte le classifiche che le riviste specializzate dedicano alle migliori esibizioni della storia del rock. E che va sempre ascoltato ad altissimo volume, saltellando e facendo un uso sconsiderato dell’headbanging. Senza nessun timore – etico o estetico – di apparire vecchi dinosauri legati a un’epoca del rock oramai sulla strada del tramonto.

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