Non so chi disse “Il freddo è il mio maestro”. Tuttavia sono persuasa che chiunque lo abbia detto, abbia detto una cazzata. Dev’essere stato uno di quei matti da rinchiudere, che usano tutte le ferie a disposizione per scalare i monti e puntare, ogni volta, una vetta più alta dove piantar su la bandierina del proprio paese e farsi la foto con due stalattiti penzolanti dalle narici.

Io ci vivo al freddo, e da ottobre a febbraio ho le estremità del corpo di un bel verde itterizia. Il freddo mi mette di cattivissimo umore, mi fa sanguinare il naso e mi fa venire le emorroidi ma mentre a tutto ciò sono abituata, al freddo no.

E’ a causa di una strana alchimia che vivo in un posto freddo: si tratta di quella forma ossessiva-masochista per cui si sceglie sempre e comunque ciò che maggiormente infastidisce, in tutte le circostanze della propria vita.

Vivo cinquecento metri sul livello del mare, in un luogo dove qualsiasi persona nata da Roma in giù non vivrebbe mai: un luogo dove la gente del posto mi sorride in maglietta, a dicembre e, se non fosse abbastanza, mi sorride mentre io vado in giro farcita di lana come un pastore delle Ande.

Anch’io vorrei sorridere a dicembre, ma è uno di quei mesi in cui non riesco ad inviare comandi ai muscoli della faccia. Vorrei partecipare alle gioie dell’inverno e vivere la vita con entusiasmo ma riesco a farlo, anche discretamente male, soltanto fra mezzogiorno e le due del pomeriggio: prima e dopo questa fascia oraria sono in grado soltanto di bere brodi ed aggiungere un altro paio di calzini ai miei poveri piedi sempre più simili a dei para-spifferi.

Da me, l’inverno offre solo una piccola ma insostituibile consolazione: il ghiaccio e la gente che vi scivola sopra. Le strade le scale, i viottoli e le piccole rampe di accesso agli edifici dove si forma il sottile strato invisibile di ghiaccio e dove  mi è possibile ammirare la gente che si staglia nell’aria sono luoghi, per me, di grande consolazione.

Non penso ci sia bisogno di fare il preambolo su quanto sia pericoloso cadere su una lastra di ghiaccio, su quanto ci si possa far male e bla bla bla bla.

Ammirare qualcuno che si arrabatta sul ghiaccio liscio come olio, tentando di imitare Nureyev, correndo sul posto senza cadere mai oppure adagiandosi a terra come un supereroe, col braccio ancora issato all’insù, alla ricerca vana di un appiglio è la mia unica, piccola gioia invernale, l’unica medicina contro il freddo che io conosca.

Purtroppo, a causa del preambolo buonista e per il fatto che vivo in un posto piccolo, in cui ci si conosce tutti, sono stata costretta a dissimulare e a smorzare il godimento di questo mio piacere peccaminoso.

I primi tempi, quando vedevo qualcuno sfracellarsi sul ghiaccio, magari con le buste della spesa, proprio accanto alla portiera della propria auto e restar lì, con l’osso sacro boccheggiante, in una posa inconsueta, provavo ad andargli incontro con premura, ce la mettevo tutta ma non riuscivo a terminare la frase “Tutto bene?”. Proprio quando ero convinta di farcela, a volte proprio sulla sillaba finale, esplodevo in grasse risate come un phon impazzito gettato dentro ad una vasca piena d’acqua, che lì si che c’è poco da ridere, altro che ghiaccio.

Scoppiavo in singhiozzi fino a sentirmi male davanti al caduto e quasi mi piegavo in due parti perfette, senza essere più in grado di far nulla eccetto ridere senza pietà.

Allora ho deciso di prendere provvedimenti e mi sono ricordata di aver fatto, diversi anni fa, qualche lezione serale di teatro e che spesso ci si esercitava a cadere per finta.

Così ho ripreso l’allenamento, ho visto moltissimi video di slapstick e ho tentato di riprodurre i trucchi della vecchia commedia del cinema muto poiché tutto può tornar utile. La soluzione migliore sarebbe stata fingere di cadere nel preciso istante in cui qualcuno mi sarebbe caduto davanti: a quel punto, avrei potuto ridere senza preoccuparmi di controllare il piacere perché il caduto avrebbe pensato che ridevo di me stessa e la gente è contenta quando offendi la tua persona.

Così ho iniziato a sedermi di scatto, a comando e mi son goduta parecchi salti carpiati di tanti sfigati, sul ghiaccio. Ma dopo un po’ mi son resa conto di esser caduta praticamente davanti a tutto il paese e di avere esaurito le cartucce poiché dopo che cadi assieme a qualcun altro, fingendo coincidenza perfetta, per quattro o cinque volte è normale che nascano i primi sospetti.

Dopo un periodo di grande avvilimento ho trovato finalmente la chiave e ho smesso di uscire in inverno. Ho passato sei mesi chiusa in casa, facendo capolino in paese soltanto da marzo in poi, e sono diventata una persona molto più rispettosa. Ma all’epoca non esisteva il Covid ed era impensabile vivere sei mesi chiusi in casa, in Italia.

Allora sono andata in libreria e mi hanno consigliato un libro che mi è tuttora di grande aiuto: Schadenfreude di Tiffany Watt Smith. Il volume indaga, a livello scientifico e sociologico, perché proviamo gioia e divertimento per le disgrazie altrui. Ne hanno parlato in tanti, nei secoli, da Platone a Schopenauer, e Watt Smith ha raccolto tutte le loro testimonianze affinché io mi potessi sentire giustificata.

Ho scoperto, grazie a questo libro, di non essere poi così spregevole, e che non ricerco il dolore altrui per godere, quanto piuttosto la sorpresa di un evento che l’altro non si aspetta, quel momento in cui una persona si trova costretta a realizzare di non riuscire più a controllare il proprio corpo che diventa così, qualcosa di finalmente libero dal buon costume e dalla vanità.

Qualcosa che finalmente riesco ad apprezzare. 

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