Con grande rammarico, debbo ammettere di essere giunta in quella particolare fase biologica in cui tante donne si agitano per capire come fare un figlio, mentre io mi agito per capire come riuscire a reggere ancora le serate, come quando avevo trent’anni.

Mi sforzo di ricordarmi com’ero, quando ero una tigre e vestivo di paillettes nei locali, bevendo gin-tonic come fosse sake e viceversa.
Mi sforzo di ricordare il segreto di quei tempi, ora che mi preparo a diventare una vecchia ciabatta De Fonseca.

Pur ammettendo di averlo sempre desiderato, perché la gioventù stanca tantissimo, mi piacerebbe invecchiare mantenendo quella bella capacità di recupero in brevissimo tempo dopo una festa, e mi piacerebbe alimentare quella capacità, in attesa che qualcuno faccia un colpo di stato e le feste tornino finalmente legali.

Da qualche mese, nel silenzio della mia casa, mi sembra di sentire le voci di tanti amici più grandi, quelle voci rauche, d’oltretomba che, all’indomani di una festa, mi dicevano, “Vedrai, quando avrai la mia età”. Ora quell’età ce l’ho ma ce l’ho da troppo poco tempo e mi trovo in quell’imbarazzante limbo, connesso alla necessità di prendere bene le misure, per non finire in ospedale o semplicemente sul divano, per le quarantotto ore successive ai due bicchieri di vino in più.

Fa male ammetterlo ma fa ancor più male trascinarsi per le stanze, sulle ginocchia, alla soglia dei quarant’anni, senza avere ancora la saggezza di riuscirsi a dire, “Basta: si è fatta una certa”.

Resistenza fisica a parte, c’è la questione sociale che mi affligge di più: a vent’anni riesci a distruggerti in situazioni dove c’è tanta gente come te, (a volte anche peggio), che se ne viene lì per fare una gara di sfascio, in un contesto informale, rilassato, lascivo, bello e quanto mi manca.
A quarant’anni, i luoghi e le occasioni dove ti ritrovi, cambiano, tuo malgrado e diventano occasioni mascherate di buone e borghesi intenzioni: degustazioni, aperitivi letterari, inaugurazioni di gallerie d’arte, concerti jazz, corsi di cucina ed altre manifestazioni pudiche.

Questi eventi sono, per gli individui come me che, quando escono di casa, non possono non esagerare, terriccio bagnato, humus per figure di merda fertilissime.

Se la degustazione diventa la mia unica valvola di sfogo, solo perché non ho più trent’anni, è normale che utilizzi quel contesto per replicare le mie abitudini rock&roll ma il risultato è un contesto triste come il dipinto di Degas, Assenzio.

Quando mi accorgo di aver superato il limite e di non essere ad un rave illegale, piglio e me ne vado, con discrezione, senza salutare nessuno, dimenticandomi di pagare e, soprattutto… dove cazzo abbia parcheggiato.

Così, a fine serata, gli altri partecipanti mi ritrovano sul marciapiede a vomitare perché non ho trovato la macchina e non ce l’ho fatta ad arrivare a casa piedi; i miei coetanei corrono ad aiutarmi, premurosi, perché sono comunque brave persone e non c’è verso di far capire alla gente, dalla notte dei tempi, che quando uno vomita vuole essere lasciato in pace e che la testa, a quarant’anni, uno se la vuole tenere da solo.

Solidarietà, vi prego.

Vale la pena analizzare l’opera L’assenzio di Degas perchè è un po’ il nostro dipinto di generazione.

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