Il 26 aprile 1979 la Rai mandò in onda in seconda serata e sul secondo canale un documentario dal titolo volutamente didascalico: Processo per stupro.

Sessantacinque minuti di pellicola in bianco e nero, girati nel Tribunale di Latina dove si tenevano le udienze del processo per uno stupro avvenuto due anni prima, allo scopo di portare all’attenzione dell’opinione pubblica italiana la narrazione rovesciata del rapporto vittima/carnefice negli episodi di violenza di genere.  

Rimarrà nella storia l’accusa appassionata dell’avvocata Tina Lagostena Bassi, la prima a insistere nell’introdurre la parola stupro nei processi al posto della terminologia più generica di violenza sessuale, che in quegli anni (e fino al 1996) era ancora un reato solo contro la morale e non contro la persona. “Perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna” arringava Lagostena Bassi.

Ancora oggi, a distanza di anni, le vittime di violenza sessuale rischiano spesso di essere accusate di comportamenti che hanno favorito la violenza. La donna violentata si trasforma in colpevole, ne vengono screditate le parole, le intenzioni, la credibilità, la persona stessa.

In inglese si chiama Victim Blaming, colpevolizzazione della vittima: la sintomatologia più violenta di una società incancrenita che offende le donne vittime di violenza due volte.

Lo racconta Belén López Peiró nel suo libro d’esordio Perché tornavi ogni estate (La Nuova Frontiera, 2022, traduzione di Amaranta Sbardella) incastrando riflessioni intime e pungenti al racconto corale che avvolge l’esperienza di un processo per stupro: le dichiarazioni dei familiari e delle persone vicine, gli atti del processo, le domande che le vittime si sentono rivolgere, la macchina del sospetto che si mette in moto e calpesta i fatti, i pregiudizi e il pettegolezzo che si allargano sulla vicenda coprendo persino il dolore indicibile di chi ha subito.  

Con una straordinaria forza narrativa, l’autrice parte dalla sua esperienza personale per erigere un racconto che funziona per affastellamento: sotto c’è la confessione di un abuso familiare e, subito sopra, confuse e accavallate le voci ora premurose, ora tese e sospettose dei parenti e delle persone vicine alla vittima, le dichiarazioni rigide dei testimoni, i documenti processuali. Tante voci per ricostruire una storia, perché come dichiara l’autrice:

“L’abuso sessuale non può essere raccontato in prima persona. L’abuso è sempre collettivo”.

La storia della protagonista, vittima dai tredici ai diciassette anni di abusi sessuali da parte dello zio, un commissario di polizia di Buenos Aires, diviene racconto corale e chiacchiericcio su una verità sempre sottaciuta, soffocata, colpevolizzata. La giustizia, la polizia, gli avvocati, i familiari moltiplicano il racconto, lo rendono plurale e per questo sempre più lontano dai fatti.

Ma ecco il potere della letteratura: mentre si intrecciano i punti di vista, si dubita, si fa la conta delle colpe, si vacilla attorno al dolore, la rete dell’omertà si allarga e si smaglia tirata da una parte e dall’altra.

Questo fa la scrittura di Belén López Peiró: districa i nodi, rompe gli schemi. E intanto il racconto di una si fa racconto di tutte, atto politico, denuncia comune, e un libro come questo diventa manifesto, megafono, bandiera, scudo, sollievo, abbraccio.

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