Cos’è che innesca un comportamento violento nell’essere umano? O forse dovremmo per una volta dire nell’uomo, visto che i protagonisti degli episodi di cronaca più recenti e sconvolgenti sono stati sempre dei maschi, oltretutto spesso giovanissimi? Marco Maurizi ci ha riflettuto su, da filosofo e da insegnante, misurando l’oggi sul lucido di quello che per la cultura contemporanea è l’esempio massimo dell’abominio fatto storia, della violenza, i campi di concentramento.

Violenza. Abbiamo smarrito l’etica? E la politica che ruolo o colpa ha?

Cosa è rimasto del convincimento di Theodor Adorno, filosofo tedesco, all’indomani di Auschwitz: che l’etica trovasse il suo fondamento primo nel momento in cui, di fronte a un essere inerme, avvertiamo nel profondo l’impulso a non abusare della sua inermità? Possiamo dire di aver metabolizzato quel monito, quando le vittime della violenza quotidiana con cui oggi ci confrontiamo sono per lo più ragazze, persone fisicamente o socialmente fragili, animali innocui? Abbiamo smarrito l’etica? E la politica, che ruolo (o che colpe) ha in questa deriva?

Quello del violento non è un io forte, al contrario: è un io talmente debole e incerto da avere bisogno di annientare l’altro per accertarsi di esistere. Debole perché immerso in un contesto sociale sempre meno coeso e sempre più competitivo, spaventato e disperato. Debole perché la stessa cultura patriarcale che gli insegna come essere cova dentro di sé un senso di mancanza che spesso non giunge a consapevolezza, ma genera risentimento. Debole, non da ultimo, perché la politica stessa preferisce far leva sulle paure anziché affrontarne la causa reale: un disagio sociale sempre più profondo e pervasivo.

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