“Sai Francesca: tu ami la vita comoda, per questo non farai mai carriera.”
Avevo 26 anni: mi sarei sposata di lì a cinque mesi, avevo un mutuo in dirittura di accollo, un tentativo di ristrutturazione di una vecchia casa conclusosi in maniera disastrosa, un contratto a tempo determinato in scadenza entro il mese successivo e l’ostracismo della mia diretta responsabile che temeva il classico binomio affibbiato alle lavoratrici che avviano un qualsiasi progetto di coppia.

Spoiler alert: il mese successivo mi avrebbe rinnovato il contratto per sei mesi e non indeterminato come invece promesso, timorosa di una gravidanza, ufficializzando la decisione il giorno prima dell’acquisto della mia prima casa. 

Una serie di circostanze antipatiche, ma non del tutto inaspettate: tempo prima ero finita sulla lista nera di parte dei vertici aziendali perché, nonostante terminassi il mio lavoro ben prima delle otto ore contrattuali, non mostravo alcun interesse verso eventuali ore extra, decisamente più appagata dal rimettermi in auto alle sei spaccate per far terminare il prima possibile quei quaranta minuti di viaggio che mi separavano da casa. 

In un corso motivazionale promosso dall’azienda, in un contesto ben poco tutelante rispetto le opinioni personali, ebbi infine l’ardire di commentare questa mia tendenza di puntualità all’appuntamento con la macchina delle timbrature con una frase come:

“Io vendo il mio tempo e le mie competenze all’azienda e nell’orario contrattuale porto a termine i miei compiti. Perché dovrei desiderare che il lavoro pervada ogni aspetto della mia vita, visto che perdo già un’ora e mezza al giorno di viaggio e lo stipendio è quello che è?”

Ero molto più sfrontata ed ingenua di adesso, ma il mio idealismo si stava inesorabilmente arrendendo alla stanchezza. Provavo ad adattarmi, senza riuscirci davvero. Per i miei titolari ero brillante e puntuale, ma svogliata nel propormi. Cominciavo a sentirmi io in errore.

Quiet quitting: una questione
di ambiente lavorativo

Come ogni millennial che si rispetti ho cambiato lavoro con media annuale, dai venti ai trent’anni. Se nei primi impieghi ci tenevo a mostrarmi collaborativa, partecipe, grata ed entusiasta, questo atteggiamento è andato a calare dal mio ingresso nella terza azienda, quando cioè ho compreso che le pacche sulle spalle non si sarebbero trasformate in un corrispettivo economico e che la stima nei miei confronti era direttamente proporzionale a quanto il mio entusiasmo potesse portare un vantaggio economico alle spese per il personale. 

Certo, non tutti i casi sono uguali e non tutte le aziende sono da demonizzare: conosco personalmente realtà gratificanti sia per l’autostima che per la busta paga, dove è anche un piacere dedicare quelle ore in più a settimana quando necessario, per permettere al lavoro di scorrere senza intoppi.

Purtroppo però ci sono anche tanti ambienti chiusi, timorosi, incapaci di fiducia e di reale delega. Luoghi di lavoro dove la scarsa preparazione viene scaricata interamente sui dipendenti che si trovano a lavorare sempre in allerta, in competizione tra loro, pronti a difendere strenuamente i loro piccoli (e a volte inesistenti) privilegi a discapito degli altri.

L’assenza di scambio che genera
il quiet quitting

Ed è proprio quando non esiste nessuna solidarietà, né lavorativa né sociale, che si possono generare fenomeni come il quiet quitting. Dal mio punto di vista non è solo il nome dato in questi ultimi mesi alla tendenza di non assumersi responsabilità oltre il proprio ruolo, o non voler fare straordinari.

Si tratta, più profondamente, di una stortura lavorativa che finalmente viene alla luce: quella che condanna il non detto di ogni assunzione, che innesca delle domande sulla richiesta di flessibilità e disponibilità massima, che pone l’accento su altre componenti fondamentali della vita di ogni individuo.

Avevo 25 anni, di lì a poco sarei approdata all’azienda che citavo all’inizio di questo pezzo e durante le vacanze di Natale vidi al cinema I sogni segreti di Walter Mitty: un film senza troppe pretese, un remake in chiave commedia con Ben Stiller e Kristen Wiig dedicato ad un sognatore, un outsider, un uomo di mezza età che trova fin troppo facile rifugiarsi nell’immaginario per contrastare la banale prevedibilità della sua esistenza.

Finché un inaspettato punto di rottura lo porta a riconsiderare la sua vita e le sue scelte, a cominciare da quelle lavorative: la paura per un passaggio di proprietà ai vertici diventa il motore di una nuova consapevolezza che trova il suo culmine proprio nel confronto con la dirigenza tossica che lo aveva emarginato (per non dire bullizzato).

Sono passati nove anni e questi temi sono più attuali che mai. Forse perché la pandemia non è la colpevole di tutti questi disagi: erano già lì, solo che ci sforzavamo di non vederli, limitandoci a bollare come svogliate le ragazze di 26 anni che alle sei si alzano dalla scrivania per non rinunciare ad altri aspetti della propria vita.

Condividi: