Era l’inizio del 2008 e, solo pochi mesi prima, mi ero sentita accogliere alla prima lezione universitaria dal Presidente di Corso con l’iconica frase: “La laurea segnerà un vostro cambiamento di status: da studenti a disoccupati”. Confortante.

Comunque: era marzo, e al cinema usciva Tutta la vita davanti di Paolo Virzì che, lo avrei scoperto solo in seguito, non rappresentava semplicemente una cupa e a tratti romanzata visione del precariato, ma aderiva perfettamente al futuro tracciato per molti laureati in materie umanistiche della mia generazione.

La storia di Marta (Isabella Ragonese), brillante laureata in filosofia circondata da ex compagni di corso forse non altrettanto brillanti ma sicuramente meglio sistemati, costretta suo malgrado ad adattarsi ad un lavoro in un call center della periferia romana per poter mantenere un alloggio in condivisione e il sogno di poter un giorno insegnare o, al limite, dar frutto ai suoi studi in ambito accademico, è liberamente ispirata ad un libro con una vena ironica più marcata ma, in fondo, ugualmente desolante nella sua attinenza con il reale: Il mondo deve sapere, sunto di un’esperienza di blog e opera di esordio di Michela Murgia.

Di lì a poco avrei capito fin troppo bene come le speranze genitoriali “non capiterà certo a te”, “basta lavorare sodo che vedrai troverai il tuo posto”, “i datori di lavoro non sono davvero così spietati” avrebbero accompagnato il mio percorso come frasi motivazionali lenitive del mio senso di colpa ad ogni rinnovo delle tasse universitarie ma, soprattutto, come i salari non siano per nulla adeguati al costo della vita medio che ogni persona è costretta a sostenere.

Come la protagonista del film, anche io mi sono dovuta adattare alle circostanze, ridimensionando anche di molto le aspettative. Se per Marta questo significa una convivenza con una ragazza madre, anch’essa centralinista e piuttosto spiantata, e un affitto pagato in ore di babysitting, per me ha voluto dire prolungare il tempo a casa di mamma e papà di cinque anni rispetto agli iniziali progetti, tutti dedicati alla gavetta e pagati, almeno per la metà, in stage e opportunità. E mi è andata decisamente bene.

Il salario minimo: cos’è e a chi spetta

Con queste premesse, quando sento parlare di salario minimo non posso che prestare attenzione. Il salario minimo è, almeno negli Stati europei in cui è stato introdotto, la più bassa remunerazione o paga oraria, giornaliera o mensile che i datori di lavoro devono per legge corrispondere ai lavoratori dipendenti. Una “paga adeguata” al costo della vita, che consenta al lavoratore di poter vivere al di sopra della soglia di povertà. A differenza del reddito di base incondizionato, questo non è corrisposto indistintamente alla popolazione, ma rappresenta solo una base di partenza nella stipula dei contratti di lavoro.

Salario minimo: perché ora se ne parla così tanto?

Il 7 giugno 2022 il Consiglio e il Parlamento Europeo hanno raggiunto un accordo circa una direttiva proposta dalla Commissione: l’adeguamento del salario minimo al costo della vita, dove questo è introdotto. In sostanza, i 21 Stati europei che già hanno adottato questa norma a tutela dei lavoratori sono tenuti ad aggiornare i salari sulla base di alcuni criteri prestabiliti: ad esempio temporali, ovvero almeno ogni due anni, e garantendo il coinvolgimento delle parti sociali.

Secondo quanto comunicato dal Parlamento Europeo, le soglie minime devono assicurare «standard dignitosi di vita, tenendo in considerazione le condizioni socio-economiche, il potere d’acquisto e i livelli di produttività nazionali». Il provvedimento non fissa direttamente una cifra per il salario minimo, ma lascia ai singoli Stati la libertà di legiferare in questo senso.

Salario minimo: cosa significa per l’Italia

Dei 27 Stati dell’UE, l’Italia fa parte di quel gruppo di 6 dove attualmente non sussistono norme a tutela del salario minimo (gli altri sono: Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia), dove cioè la paga base è individuata con la contrattazione collettiva nei vari settori. In questo senso, la norma non punta all’introduzione di un salario minimo dove assente, quindi l’Italia non è chiamata a prendere una decisione in questo senso.

«In Italia è in corso un dibattito molto forte e ampio su come rafforzare un sistema di contrattazione collettiva ed eventualmente introdurre un salario minimo. Non imporremo un salario minimo politicamente. Penso che questo strumento sia un contributo a questo dibattito».

Il Commissario Europeo al Lavoro e ai Diritti Sociali Nicolas Schmit

Non bisogna cadere comunque nel tranello delle generalizzazioni: vale sia per le aziende, che per i lavoratori. Il dibattito di quest’ultimo mese sul salario minimo si è  concentrato principalmente su vecchi stereotipi e preconcetti, lasciando in secondo piano la vera opportunità di questo accordo: quello di consolidare, o a volte superare, i contratti collettivi, che nell’ultimo ventennio stanno mostrando tutte le loro debolezze.

Il film di Virzì, in cui spiccano anche le interpretazioni di Elio Germano, Micaela Ramazzotti, Sabrina Ferilli e Valerio Mastrandrea, di sicuro ha il pregio di aver fatto luce sul fenomeno allora ancora  poco sentito del precariato, ma dopo quindici anni ben poco è cambiato.

Forse l’iniziativa Europea sarà la spinta definitiva per incoraggiare anche l’Italia alla revisione degli accordi di lavoro. Per raccontare una storia diversa, questa volta.

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