Raffaella Paoletti, venuta a mancare qualche giorno fa, era la castellana di Castiglione del Terziere, nella Lunigiana, custode di un patrimonio letterario inestimabile tenuto nella sua casa museale.

Pochi sapranno chi era Raffaella Paoletti e forse molti lo sanno solo perché ora è morta. Cercheranno sui giornali e come succede spesso, troveranno più notizie delle cause del suo malore, di quante chiamate perse, dell’irruzione dei carabinieri. Allora la morte fa più notizia per chi fa grandi opere senza dirlo.

Io l’ho conosciuta all’opera nel suo castello, pochi giorni prima che morisse. Ho presente il suono della sua voce, della suoneria del suo telefono che squillava in attesa di altri ospiti, sconosciuti, entrati per passaparola. Una tradizione orale che ora finisce con lei, intermediaria dei grandi scritti della nostra letteratura diventate pietre miliari del suo castello.

Iniziamo dalla cornice di un quadro di cui non si conosce ancora la storia che raffigura. Una favola senza fantasia, senza eccezione per i nomi dei luoghi. In una distesa di verde cotonato sul monte Barca vicino a Bagnone, tra Pastina e Filetto, c’è qualche gatto randagio che spera di trovarci del cibo e un visitatore munito di zaino tecnico nuovo di zecca coriacea.

Il silenzio si blocca insieme al freno a mano della macchina. Il tempo, una volta usciti dalla cinquecento, ci fa entrare nel medioevo, sotto l’arco così breve e acuto di noi ventenni alle porte di un weekend romantico. Le pupille si dilatano per attivazione del sistema simpatico, un evidente falso amico arrivato come un fantasma, per farci piacere e un po’ paura.

Un angolo del castello di Raffaella Paoletti - photo by Silvia Guzzetta

Di fronte, intorno, di schiena, di petto, nessuno. La rocca si incarta nei dedali in pietra e ci ingloba nella paralisi. Fermi: dove andiamo? L’ indicazione per quello che, per comodità, chiamo b&b, ma è più simile ad una grotticina cortese, era un post it con il nome sulla porta.

Per noi diventa subito un gioco e si complica ad ogni passo alla ricerca di senso su poesie di cui sono tappezzate le mura delle casette che lasciano intendere la statura di un basso medioevale medio; Si apre un tetris scenografico fatto di parole sconnesse. Uno di questi poeti, in particolare, parla al vento della sua malattia dei libri. Nessuno dietro le quinte casalinghe.

Le parole sulle tende delle finestre svolazzano e terminano con un punto panoramico del racconto, da cui, per ironia, si poteva scorgere il castello di Virgoletta, una frazione vicina. Dove siamo? Si leggono solo spezzoni: droga, quiete e ansia (un luogo perfetto per disfarti della tua ragazza? Penso e mi mordo la lingua, è troppo spettacolare, non valeva la pena dopo una magnifica sorpresa di compleanno).

Non c’è nessuno, l’indiscrezione di un saluto potrebbe disturbare ogni incontro, non si parla, si comunica a cenni che sottintendono “vengo in pace” come se quel suolo pubblico fosse privato solo perché privato di abitanti, ma il senso era che più pacifico di un borgo di campagna, non c’era nulla.

Ci inquietiamo ed elettrizziamo con i capelli phonati di aria fresca sulle doppie punte di montagne apuane. L’altitudine rarefatta ci dà alla testa e ci lascia con puntini di sospensione e direzioni reperibili solo in telefoni carichi, ma inutili. Se non c’è campo, campiamo!

Ci perdiamo in un cidro di mele francese a bassa gradazione, tra ciocchi tosco-liguri a lume di candela. Quando riusciamo a mettere a fuoco, senza sfumature di piromania ecco: Castiglione del Terziere, una delle tre frazioni che nel ‘200 apparteneva alla famiglia Malaspina. Finiti elettrizzati in una notte tra nomi e un film horror sulle streghe, arriva l’indomani. Facciamo ingresso a corte; due giovani forestieri a cavallo di jeans, in ritardo con una scusa da nascondere: una lampada a sfera rotta con un futuro tutto da leggere.

L’incontro con Raffaella Paoletti

Raffaella Paoletti ci accoglie come una zia stanca ma felice di vederci e, senza troppi fronzoli, già tutti a ornare il suo arredamento mediceo, dà inizio alla storia.

Ci prende con piglio giornalistico per il braccio, ci dice che dovrebbero esserci cartelli lungo l’autostrada a fare pubblicità a quel luogo, sull’A11 Azzurra firenze-mare che arriva sul monte Barca (e coincide con il surreale fiabesco), lei vorrebbe che ogni chilometro avvicinasse un guidatore curioso alla Lunigiana e, invece che la durata della coda del traffico, vedesse proiettato il conto alla rovescia degli anni in cui la stampa venne portata in Italia. 11 anni prima di Vienna a 30 chilometri, 9 anni prima di Londra a 20 chilometri, poi Ginevra, Barcellona, e altre grandi città europee, fino a giungere alla destinazione di un piccolo borgo sperduto a Fivizzano, dove Jacopo da Fivizzano, un tipografo, ha diffuso la stampa.

Raffaella Paoletti, evidentemente stupita di vedere due ragazzi, ci aveva preso subito come messaggeri di una generazione morta, la nostra (?). Apre l’anta di un armadio di legno e scatta l’allarme, ci fa vedere quei famosi morti che vivevano nei suoi manoscritti, negli incunaboli di valore inestimabile: la prima edizione della Storia d’Italia del Guicciardini, il curriculum vitae di Leopardi, ovvero una lettera scritta a mano mandata ad un amico, i suoi Versi, La Gerusalemme Liberata ecc.

Tutti pigiati lì dentro con la gorgia toscana. “I giovani non si emozionano più per questo”, pensa Raffaella Paoletti, mentre mette in fila le 3 edizioni della Divina Commedia di cui la prima del 1472 di Foligno, “preferiscono sfasciarsi in discoteca”, dice.

Ammirati dal cambio di registro linguistico, ci apre ancora un quaderno di grammatica di un medievalino che, annoiato in classe, si divertiva a imprimere monete con l’inchiostro. In basso c’è anche un suo piccolo autoritratto che ricorda il cantagallo di Robin Hood, allora ci stupiamo a vedere che si vestivano davvero così.

Parlare di collezione è sbagliato, non c’è pezzo mancante di un puzzle, ma tanti pezzi trovati per l’Italia. Ci legge ad alta voce delle parti a sua scelta, come una favola ai nipoti a cui aggiunge intermezzi della sua storia.

Un momento dell'incontro con Raffaella Paoletti - photo by Silvia Guzzetta

Raffaella Paoletti aveva circa 20 anni, la nostra età, quando suonò al campanello del castello, per visitarlo, come noi. Un uomo di 50 anni le aprì, si chiamava Loris Jacopo Bonomi, un medico di Pfizer con la passione per i libri antichi.

Gli incontri della vita sono casuali, ma seminano un po’ di segni qua e là. Al primo colloquio alla Pfizer, prima che fosse nota per il nome del vaccino del Covid, Loris aveva appena trovato, ad un mercatino dell’usato, un libro sulla chirurgia scritto da un certo Bonomi, evidentemente un suo avo.

Lo compra, pescato come segno del destino e un pesce da spinare. Si siede pronto per il colloquio, posa il libro sul tavolo davanti al datore dell’azienda, il quale, incuriosito, lo apre e si accorge che è dedicato a tale Carfa. Si dà il caso che Carfa è il suo di cognome. Uniti da due avi in comune e da un galeotto manuale di chirurgia trovato nella mischia di libri ammuffiti, si stringono la mano e sugellano un nuovo inizio di formule chimiche.

Raffaella Paoletti ci racconta l’aneddoto mentre si infila il guanto bianco per non rovinare la carta, in stretta metaforica con quello medicale di suo marito, lo accarezza, come lo curasse.

Raffaella Paoletti con i guanti per sfogliare il prezioso libro - photo by Silvia Guzzetta

“E’ stato un uomo che ha trasformato i soldi in sassi”, dice Raffaella Paoletti continuando le sue metafore dopo che specifica “è stato comprato come gli yogurt in offerta” riferendosi al castello acquistato con 8000 fiorini da Cosimo 1 de’ Medici e ricostruito da suo marito pietra dopo pietra.

Un angolo del castello di Raffaella Paoletti - photo by Silvia Guzzetta

Mentre ripiega una pergamena degli statuti del ‘200 come uno scottex da cucina con cui pulire tracce di quello yogurt, ecco la parte sporca del lavoro di Raffella Paoletti, che è anche la sua vita: ha il porto d’armi e due cani da difesa per eventuali attentati, cose che ci fanno capire il calibro della sua biblioteca.

Raffaella Paoletti con una pergamena degli statuti del '200 - photo by Silvia Guzzetta

Come unica vera ereditiera deve stare attenta a chiunque possa entrare in casa sua da infiltrato e approfitti della sua ospitalità, effettivamente come noi. Per questo “tutto è stato notificato, beni mobili e libri”.

Loris e Raffaella erano una coppia che ha viaggiato tutta la vita per rincorrerli, da quando Loris è morto, cioè da 11 anni, lei non li ha mai lasciati soli a casa, neanche un giorno, non è mai andata in vacanza per stare vicina ai libri, come figli da accudire, ma che non si può portare dietro. Raffaella Paoletti ha deciso di far vivere loro al posto suo, ma con lei dentro, come una principessa in felice prigionia, con il suo principe di Machiavelli.  

Il futuro di un castello senza eredi

E tutte quelle future preoccupazioni che lei aveva sulle sorti di questo castello senza eredi? Ora che lei non c’è più, si avverano.

Raffaella Paoletti non sa ancora che fare, ci intima che vorrebbe diventasse un centro culturale, di ricerca, un luogo di sapere e accoglienza di apprendisti umanisti, alieni e alienati come maghi perché “se non ami cosa vuoi? I soldi” e non è il suo caso.

Ricca ma senza liquidità, Raffaella Paoletti si confida con noi, seduta sulla poltrona di pelle, destreggiando una Marlboro industriale a minacciare di fumo i legni raffinati di antichi scrittoi e di cenere carte inestimabili di stoffa vegetale. Ma quella è casa sua, non sono nulla quelle cose se nessuno le vive, le tocca, le legge con la stessa passione contagiosa.

Tutto è familiare e così vicino a noi, tra le sue foto, lo diventiamo anche noi, entriamo dentro la sua cornice. Alla sua richiesta di prenderle un manoscritto, perché lei non ci arriva, l’ansia che possano cadere o rovinarsi è pari a quella di tenere un neonato appena divenuto tuo parente e dato che è un po’ il figlio che non ha mai avuto, non siamo così lontani dalla realtà.

Il secondo giorno che andiamo a trovarla, ormai mossi dall’affetto di una zia, allora mi sento di poterle chiedere: “Perché non ci ha fatto un museo?” anche se tra me e me volevo capire perché non si fosse liberata di quel fardello di responsabilità, di un castello da curare, bello ma pesante. Lei mi risponde “un museo dove far andare in giro i vecchietti? non possono, c’è la salita!”.

Da lì ho capito che con la sua ironia non si annoiava a vivere così, a vivere di questo, a ripetere la sua storia, la stessa, semplicemente perché interloquiva con la storia degli altri, morti e vivi che fossero, per amore anche di un uomo che ha vissuto in lei fino all’ultimo giorno e che ora ha raggiunto. Lo accarezza, senza guanti, nell’aldilà.

Così, leggono le storie insieme, in un nuovo linguaggio. Loris, in vita, era anche un poeta, ha scritto una trilogia: Il solo segno. Un diario della sua vita che Raffaella Paoletti tramandava oralmente e che ora leggeremo con altri occhi e ascolteremo con altre orecchie. Con la speranza e l’invito a chi andrà, che il loro castello conservi lo stesso e gli stessi spiriti.

Il castello con la sua preziosa collezione fa parte del Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.

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