Ho recentemente rivisto il film del 1975 The Rocky Horror Picture Show. Ricordo che quando ero nel periodo in cui ascoltavo solo rock, opere e musical, di questo spettacolo di Richard O’ Brien mi piacevano le canzoni e l’atmosfera divertita/rock’ n ‘roll ma lo consideravo più leggero di altri, musicalmente, e testualmente inferiore alle cose migliori di Andrew Lloyd Webber o di Pete Townshend.

Una cosa che avevo però sottovalutato è invece l’aspetto radicale rappresentato dalla scrittura che conduce la dialettica forma/contenuto ad un punto di indistinguibilità inconscia ed erotica.

Tutta la trama, di fatto, si gioca su associazioni verbali che sono al tempo stesso un sunto della cultura libertaria dell’epoca ed una sua sublimazione in forma di mito moderno. Non solo a livello macro (Transilvania/Transessuale, Frankenstein/Francoforte) ma anche a livello micro (for tonight… fortunate) il testo è scritto seguendo l’irresistibile e irresponsabile legge della successione inconscia di significanti che vengono presi alla lettera e trascritti come significati.

The Rocky Horror Picture Show:
assurdo e credibile

L’esito è al tempo stesso assurdo, coerente e credibile. Viene indagata l’impossibilità del piacere assoluto come principio formale, e il suo senso intrinseco viene portato a compimento fino ad estrinsecarsi in un nonsenso che tanto più è godibile tanto più rinuncia a darsi come senso, che tanto più è intelligibile tanto più segue la legge che si nega all’intellegibilità. L’opposizione tra esserlo e sognarlo (don’t dream it, be it!) viene superata nell’atto della scrittura.

E alla fine, quando anche la serietà e il tragico si mostrano farsa, il trucco che cola manifesta l’indistinguibilità di realtà e apparenza, l’impalcatura della norma e della razionalità che crollano sotto il peso di un nichilismo che in essi si occulta assumendo le forme del sesso, della morte e del loro godimento.

La potente visione alternativa
di questo show

È uno spettacolo per molti versi vicino alla sensibilità odierna, basti pensare al tema della fluidità di genere e al poliamore, ma per altri versi se ne distacca profondamente.

La potenza visionaria dell’opera, infatti, mescola, come solo l’arte sa fare, radicalità e ironia, regalandoci uno spettacolo che ci cala integralmente dentro una visione alternativa del presente pur non volendoci insegnare nulla.

Anzi, forse proprio questa è la sua grande forza espressiva e suggestiva: quando, nel finale, veniamo edotti dal narratore di essere una specie perduta “nel tempo, nello spazio e nel senso” anche questa conclusione, con le sue meste note, appare uno scherzo, la degna conclusione di una farsa che anche quando dice la più cruda verità non si prende sul serio.

Viene da chiedersi non quanto sia invecchiato The Rocky Horror Picture Show, ma quanto noi siamo all’altezza della sua esigenza di libertà. Il lettore incuriosito cerchi di scoprirlo da sé provando a confrontarsi con il capolavoro di Richard O’ Brien e Jim Sharman.

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