Non so con certezza se Cinema Samuele, cioè l’ultimo disco di Samuele Bersani pubblicato lo scorso ottobre e che ha appena vinto la Targa Tenco come miglior album dell’anno, meritasse fino in fondo il premio. Bei dischi – anche molto calati nell’attualità, va detto – come Paesaggio dopo la battaglia di Vasco Brondi (di cui avevamo parlato qui) sono rimasti fuori dalla cinquina dei finalisti, mentre comunque in lizza fino in fondo c’era stato un istant-monumento come IRA di Iosonouncane, un’uscita che al di là delle (poche) polemiche sul consenso eccessivo e unanime rappresenta un punto di non ritorno per la nostra musica, in grado di aprire le acque, distinguersi, portarci molto, molto lontano da qui. Ma i premi, si sa, riescono più spesso a dividere che a unire, e – almanacchi e trofei da esporre a parte – in musica se ne può fare a meno. Per cui no, non so quanto Samuele Bersani lo meritasse effettivamente, ma sono contento sia finita così. Per la storia, soprattutto, che quel lavoro racconta, e per quella che si porta dietro.

Ora: che Samuele Bersani fosse uno dei migliori cantautori degli ultimi – facciamo – trent’anni è appurato almeno quanto il fatto che prima di questo riconoscimento stessimo parlando di un sottovalutato, uno un po’ perso per strada, defilato dall’iper-presenza social e discografica di questi anni e quindi difficile da inquadrare. Di più: ora i riflettori gli stanno tornando addosso, insieme all’affetto dei nuovi che si unisce a quello di chi non se ne è mai andato, Cinema Samuele sta raccogliendo i risultati meritati dal pubblico prima ancora che dalla critica (che non è mai mancata, in realtà), l’ha riportato al centro del dibattito e chissà che in periodo di pieno it-pop non si possano riscoprire davvero le varie Replay, Coccodrilli e Giudizi universali, esempi di pop d’autore avanti anni luce sui tempi a cui (ri-)dare valore per testi – che penna, oh – e melodie dalliane, specie rispetto a ciò che va per la maggiore oggi. Però… però sta di fatto che prima di quest’ultimo album di lui si erano confuse le tracce, tanto che la precedente prova in studio era del 2013 (Nuvola numero nove, con dentro comunque En e Xanax), e i più giovani (e non solo, per chissà quale distorsione) ne ignoravano lo spessore e il resto.

Ecco, Cinema Samuele e la Targa Tenco sono una risposta – più o meno consapevole, più o meno sottotraccia – a questa situazione. Sette anni di silenzio in cui è successo di tutto: prima un amore finito (male, direi), poi il vuoto creativo, infine la ripartenza. Come Persona di Marracash e Mezzanotte di Ghemon, anche questo infatti è un disco sul ritorno, sul ricominciare partendo da un baratro psicologico e sul farlo in grande stile. Per gli arrangiamenti, in cui per la prima volta sporca le tessiture della casa con l’elettronica da contorno e guarda ai The national; e soprattutto per i testi, che con un’attenzione per il lessico d’altri tempi raccontano di cadute lunghissime e uomini che toccano il fondo in ogni senso, fisico e morale, ma che alla fine – senza chissà quali intuizioni o sforzi, come a dire che tutto ciò fa parte delle cose della vita, che le lacrime poi si asciugano e ritorna il sole – trovano una via d’uscita. Lividi, sì, ma di nuovo in piedi. Con gli occhi lucidi, malinconici, comunque di nuovo sereni.

Il pezzo-manifesto – al di là del titolo, che trova riscontro nella cinematografica Il tiranno, quasi un cortometraggio in musica – è Il tuo ricordo, un canto di liberazione fra un passato d’amore che “sta giocando una carta impossibile per tornare di moda”, lui che non sa (non sappiamo) “che il tempo è irripetibile”, “riposa bellamente nel letto degli ospiti”, “non paga nemmeno il biglietto”, e un presente che “prepara la sua corsa e promette a sé stesso che, arrivato al traguardo, non avrà mai più nostalgia. Promette appunto, ne esce (dai coltelli di Mezza bugia, sì), insomma ce la fa. Come l’eroe tragico dell’odissea misera e grottesca di Harakiri, quasi una Disperato erotico stomp meno pruriginosa, partita con l’idea di uccidersi dentro “un cinema porno francese” e terminata dopo mille peripezie con una rinascita inaspettata, “vestito di bianco”.

E poi L’intervista che è un racconto in prima persona del mestiere di giornalista e delle sue storture che cresce fino a un dolce vaffanculo finale (“Con le formiche sulla faccia che fanno merenda mi addormenterò, il più lontano dalle puttanate vostre”), l’opener Pixel il cui soggetto “profuma come un principe decaduto e andato a sbattere e la conclusiva Distopici (Ti sto vicino), quasi due facce della stessa medaglia, del restare in piedi nonostante i sogni siano sfumati, stiano “scendendo i titoli di coda” e dentro di noi ci siano solo macerie. “Non è colpa del mixer se ho la voce più triste, tu lo sai”.

Quindi no, i premi lasciano il tempo che trovano e forse questo non è il disco migliore dell’anno; ma è un album che fa bene solo a sentirlo, quindi immagino anche a concepirlo, registrarlo, condividerlo con la gente. E l’affetto di pubblico e critica, la gente ai concerti e la Targa Tenco, sono una benedizione per la ripartenza e per la riscoperta di Samuele Bersani stesso.

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