Oggi facciamo un salto indietro: le due stagioni di Fleabag sono vecchie – la prima è del 2016, la seconda, che ha fatto esplodere il successo in Italia, del 2019 – ma se non le avete viste, c’è una lunga serie di motivi per non mancare questo prodotto spettacolarmente divertente, massacrante, rivelatore partorito dalla penna (e dalla capacità attoriale) della giovane Phoebe Waller-Bridge, ancora su Amazon Prime Video.

Lei è Fleabag, sacco di pulci

Siamo a Londra, e una ragazza tenta di far sopravvivere il suo café (non un bar ma un posto dove si mangiano panini e insalate), trovare un senso alla vita portandosi a letto quasi chiunque le passi davanti, e rimediare ai sensi di colpa legati alla morte della sua socia e migliore amica (che vediamo in una serie di flashback). Non sapremo mai come si chiama: lei è Fleabag, sacco di pulci. Imperfetta, indecisa, egoista, brillante, indimenticabile (gambe da far invidia). Non è emblematica di nessuno: non delle giovani donne d’oggi, non del femminismo, non delle donne che lavorano; è solo se stessa. Il primo motivo dunque è la scrittura folgorante; Phoebe Waller-Bridge ha sfondato con Fleabag, le hanno chiesto anche di metter mano alla sceneggiatura dell’ultimo James Bond con Daniel Craig per insufflargli un po’ di vitalità (causa pandemia lo stiamo ancora aspettando ma No time to die, qui il trailer, dovrebbe finalmente essere sugli schermi in ottobre 2021). Dal mondo di Fleabag a James Bond, c’è in mezzo un oceano; ma chi sa scrivere sa scrivere; e Waller-Bridge ha prodotto un altro successo come Killing Eve, tre stagioni che oppongono una killer (Jodie Comer) a una poliziotta (Sandra Oh). Al centro della mia fascinazione attuale con Fleabag però c’è una scena specifica del terzo episodio della seconda stagione (in una serie che non si sente obbligata a inserire una quota di lesbiche e gay); un dialogo che trovo profondamente consolatorio di fronte al dibattito su sesso e identità di genere, io donna stufa di etichette, stufa anche di discutere con tante giornaliste e femministe che rivendicano l’essenzialità identitaria del corpo delle donne.

La scena della menopausa

La nostra eroina si trova a chiacchierare in un bar fra un martini e l’altro (non vi dico come ci arrivano) con una donna d’affari di successo, un cammeo affidato a Kristin Scott Thomas, la quale spiega a Fleabag le meraviglie della menopausa, quel momento in cui “non sei più una macchina fatta di pezzi, ma solo una persona che fa affari”. Penso io: come gli uomini, norma del genere umano. Quando la menopausa ti rende asessuata, anzi meglio, ti consente di dimenticare, a volte, il corpo, allora ti spogli delle caratteristiche che rendono le donne (e non gli uomini, a tutt’oggi) connotate e legate al loro destino biologico, che facciano o meno figli. Il femminismo della differenza ha rivendicato per decenni con gioia e orgoglio l’essenzialità del corpo delle donne nella definizione identitaria. Sei donna perché hai un utero (e una vagina, ok, e dei seni), e ne devi andar fiera, invece di vergognartene. Bene, siamo fiere. O comunque lo accettiamo, come le ginocchia, gli occhi, i gomiti, parte della nostra identità. Solo che – a prescindere dalle questioni di giustizia e tutela che riguardano chi del proprio genere non ha certezze (e sì, stiamo parlando di nuovo del ddl Zan) – anche per le donne che si riconoscono donne e femmine, non mi pare che l’essenzialismo abbia portato alla libertà dalle norme patriarcali. E’ quello che sostiene un certo femminismo, ma non è quello che ho sempre vissuto sulla mia pelle. Sempre corpi centrati sull’utero siamo, e quest’utero ha importanza perché ci può rendere madri, ed essere madri sarà pure motivo di libertà e orgoglio, ma nel 99,99% dei casi la società patriarcale (agita da uomini e da donne) punta sul concetto di madre per annichilire quello di lavoratrice, di professionista, di libero individuo. Quando arriva l’età della menopausa, in effetti, sfuggi al tuo destino biologico; ed è allora che – a volte; non varrà per tutti; nel mio caso è così, nonostante sia giunta con uno tsunami di problemi fisici – cambia la prospettiva sul corpo, e anche sul significato e sull’importanza di genere e identità. Torno a Fleabag. Il motivo per cui questa breve scena – sono meno di cinque minuti – magistralmente scritta, mi commuove, è la sete di libertà della donna d’affari (per inciso, lesbica; ma quando Fleabag affascinata cerca di portarsela a letto, la signora ride, declina, ‘sono stanca’: evidentemente ha altre priorità, anche se rimpiange l’era in cui l’erotismo era al centro dei suoi interessi). Libertà: ovvero, possibilità di far quello che si vuole come persona, non come uomo o come donna; non ignorando ma andando oltre il corpo (è uno dei temi del bellissimo film Nomadland di Chloé Zhao con Frances McDormand, che trovate ancora al cinema, o a noleggio sempre su Amazon Prime). Motivo per cui, in fondo a questo articolo trovate la trascrizione della scena della menopausa, con traduzione: godetevela. Scott Thomas ha detto che girarla l’ha resa felice; posso capirla.

La sorella e la matrigna: l’una troppo diversa l’altra insopportabile

Ci sono, dicevo, anche altri motivi per guardare Fleabag. Intanto, Claire, la sorella:  fra la madre morta e un padre accoppiato a una donna insopportabile, la famiglia per Fleabag, fra alti e bassi, è lei. Sono diverse, e non vanno molto d’accordo: ma sono l’una per l’altra, nei modi più inattesi, il sistema di supporto più credibile, il pilastro che ci sarà sempre. “Non siamo amiche, siamo sorelle!” sibila Claire (Sian Clifford) in un momento chiave. Poi c’è un altro polo femminile, l’insopportabile matrigna: Olivia Colman, che qualunque cosa faccia dalla Regina d’Inghilterra in The Crown (a proposito, si aspettano le ultime due stagioni) alla figlia di Anthony Hopkins adesso al cinema con The Father, è sempre stupefacente. Lei sostiene di non preparare le parti e di recitare come le sente; qui, come pittrice invadente, egoista e gelosa marcia delle figlie dell’uomo che ama (che la ricambiano con altrettanta acrimonia), è uno dei personaggi più divertenti degli ultimi anni sullo schermo. Il suo è il potere sfacciato dei caratteri dominanti e dei vincitori (anche se Fleabag sa prendersi le sue rivincite).

Il prete cattolico, inatteso e simpatico

Infine, nella seconda stagione Fleabag si invaghisce di un prete cattolico. Non ve ne dirò di più, ma è una specie di triplo carpiato dell’amore per una che cerca conferme nel sesso. Questa rivisitazione di Uccelli di rovo avviene però con il prete più inatteso e simpatico che si possa immaginare – giunto tardi alla vocazione, pieno di parolacce e gin tonic, ma anche di sincero fervore. Aiuta molto che lo incarni Andrew Scott (già Moriarty in Sherlock Holmes, fra le altre cose) che qui si trasforma in sex symbol; il sorriso, ‘il suo bellissimo collo’, le sue mani, negli occhi di Fleabag effettivamente fanno venire l’acquolina. Sono episodi di 25 minuti, sei a stagione: se non li avete visti, vi impegneranno solo qualche serata. Ben spesa. Ed ecco la trascrizione della scena della menopausa. Qui potete guardarla (in inglese): Fleabag: “How old are you?” Belinda: “58. And you?” Fleabag: “33” Belinda: “Oh. Don’t worry – it does get better”. Fleabag: “You promise?” Belinda: “I promise. Listen – I was in an airplane the other day. And I realized… oh I’ve been longing to say this aloud. Women are born with pain built in. It’s our physical destiny – period pains, sore boobs, childbirth, you know. We carry it within ourselves, throughout our lives. Men don’t. They have to seek it out. They invent things like Gods and demons just so that they can feel guilty about things, which is something that we do VERY well on our own. And then they create wars, so that they can feel things, and touch each other, and when there aren’t any wars they can play rugby. And we have it all going on in HERE, inside; we have pain on a cycle for years and years and years. And then – just when you feel that you are making peace with it all, what happens? The MENOPAUSE comes, the fucking menopause comes and it is… THE most… WONDERFUL fucking thing in the world. And yes, your entire pelvic floor crumbles and you’re fucking hot and no one cares, but then.. you’re free. No longer a slave, no longer a machine with parts. You’re just a person, in business. Fleabag: “Wow. I was told it was horrendous”. Belinda: “It IS horrendous. But then, it’s magnificent. Something to look forward to”. Fleabag: “Quanti anni hai?” Belinda: “58. Tu?” Fleabag: “33” Belinda: “Ah. Non preoccuparti – poi va meglio”. Fleabag: “Me lo assicuri?” Belinda: “Te l’assicuro. Guarda: ero in aereo l’altro giorno. E mi sono resa conto… oh che voglia che avevo di dirlo ad alta voce. Le donne sono nate col dolore INCORPORATO. E’ il nostro destino fisico – dolori mestruali, tette indolenzite, il parto, sai. Ce lo portiamo dentro, per tutta la vita. Gli uomini no. Devo cercare un equivalente. Si inventano cose come dei e demoni solo per sentirsi colpevoli di qualcosa, che è una roba che noi facciamo benissimo per conto nostro. E poi fanno le guerre, perché sentire qualcosa, e per potersi toccare, e quando non ci sono guerre possono sempre giocare a rugby. E noi ce l’abbiamo tutto qui dentro; abbiamo dolore a cicli per anni e anni e anni. E poi – proprio quando ti sembra di cominciare ad accettare l’intera faccenda, che succede? Arriva la menopausa. Arriva la cazzo di menopausa. Ed è la cosa PIU’ fottutamente meravigliosa del mondo. E sì: ti si sbriciola il pavimento pelvico, hai sempre caldo e non importa a nessuno. Ma sei libera. Non più una schiava, non più una macchina fatta di pezzi. Sei solo una persona, che fa affari”. Fleabag: “Mi avevano detto che è orrendo”. Belinda: “E’ orrendo infatti. Ma poi, è meraviglioso. (Ti do) qualcosa a cui guardare con ottimismo”.
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