Sex Education tornerà per una quarta stagione, l’annuncio di Netflix è del 26 settembre e del resto era ovvio: ci sono alcuni fili rimasti in sospeso nella terza stagione di questa serie inglese (online da metà settembre) che ha scombinato gli schemi di come si parla di sesso e adolescenti, e non solo.
In Italia sono nate polemiche (guarda un po’) per i cartelloni pubblicitari della serie, di cui ha già parlato Giulia Blasi nel suo articolo sulla sessuofobia delle destre (Valigia Blu).



Evidentemente un certo mondo italico – come sempre non solo patriarcale ma pesantemente influenzato, anche se non si dice, dalla presenza del Vaticano – ha paura della varietà delle esperienze sessuali e della libertà, femminile o non binaria; perché le persone chiuse in gabbie dalle definizioni e dai comportamenti ammessi sono più facili da manipolare. Al più, le cose si fanno ma non si dicono; ipocrisia che però è tacitamente lecita solo per i maschi.

Limitiamoci per ora a parlare di Sex Education come se non vivessimo in Italia, cosa più semplice se la guardate in lingua originale.

I temi nuovi della serie: verità e potere

La serie racconta, certo, anche di sesso eterosessuale, omosessuale e non binary, di come si cresce gay o lesbiche, di accettazione e rifiuto. Arrivati alla terza stagione potrebbe essere stucchevole; ma se ne scrivo è soprattutto perché pur trattando di sesso, scuola, disagio e amore, adesso Sex Education si occupa di un altro tema fondamentale, che la percorre e la innerva tutta: verità, segreti e bugie, di adolescenti e adulti: come tutti ci mentiamo l’un l’altro, come ognuno di noi abbia le proprie verità nascoste, e come le cose sono più semplici se chi si vuol bene si rispetta e riesce a comunicare. Ovvero, uno dei temi cruciali del concetto di educazione sentimentale oltre che sessuale.

Sex Education, prodotta dalla Eleven Films, è ideata dalla giovane sceneggiatrice Laurie Nunn, e la terza stagione ha una pletora di altri sceneggiatori di supporto. Il giovane Otis (Asa Butterfield, ragazzino nella prima stagione ora avviato a giovanotto) va al liceo della cittadina di Moordale (luogo di fantasia dell’Inghilterra). E per caso comincia con una compagna, Maeve (la francobritannica Emma Mackey, qui al suo primo successo), a tenere dei corsi di educazione sessuale per i ragazzi del liceo. Ce ne è bisogno, e lui ne sa qualcosa perché la madre Jean, strepitosa Gillian Anderson, fa la terapeuta sessuale.

Loro hanno una bella casa, Maeve vive in una roulotte in fuga dalla madre tossicodipendente, Eric (Ncuti Gatwa) è un ragazzo nero gay e il miglior amico di Otis, cresciuto in una famiglia affettuosa; Connor (Adam Groff) è vittima del padre bullo (che poi si scoprirà essere stato bullizzato a sua volta, of course) e fatica a venire a patti con la sua omosessualità; eccetera, non vi dettaglio le storie incrociate di adulti e adolescenti, una costellazione di personaggi quasi sempre memorabili. Gillian Anderson, la star di X-Files e The Fall, qui disegna una donna in bilico fra saggezza e nevrosi; non è detto che essere una psicoterapeuta sia la ricetta migliore per essere genitore. O forse sì; lo stesso Otis oscilla su questo punto.

Ad emergere più nettamente fra tutti però è Emma Mackey; la sua Maeve, ragazza coraggiosa, brillante, anticonformista, avanza nella vita come una nave nei ghiacci dell’Artico, e se sbatte contro gli iceberg si tira su e va avanti. Impossibile non ammirare lei e l’attrice che la anima. In questa terza stagione è un ritratto ancora più affascinante, perché la storia segue come dicevo tutti nel profondo, là dove esistono le nostre verità che fatichiamo a far emergere, spesso per timore di essere vulnerabili. Riguarda tutti, anche la neopreside Hope Haddon (Jemima Kirke) che per coprire le sue debolezze mette a dura prova il buon senso, la solidarietà reciproca, l’umanità degli studenti. Con lei la serie continua ad esplorare un altro tema: il potere e l’abuso che ne fanno le figure di autorità, e come possa traumaticamente distruggere chi se ne trova in balìa.

E’ vero che Sex Education può anche innervosire e qualcuno lo troverà stucchevole, perché riempie tutte le caselle del politically correct (che poi non si dovrebbe più dire, meglio culturally sensitive, ovvero attenti alle esigenze di tutti). Ci sono gay, lesbiche, famiglie affidatarie, tossicodipendenti svalvolati ma simpatici, è lecito essere anche asessuati, l’amicizia premia, le madri single sono all’ordine del giorno, le famiglie allargate e/o omosessuali ovvio, le istanze femministe neanche lo dico, il sesso quasi sempre impera perché gli adolescenti hanno gli ormoni che ribollono; però (tranquilli italiani) donne e ragazze a letto hanno sempre il reggiseno perché parlare di sesso sì, farlo intuire anche, ma le tette non si mostrano.

Però che boccata di aria fresca. Fra tanti ormoni che ribollono, tanta ricerca del sé, ci sono alcune facce (maschili, femminili, indeterminate) che restano memorabili anche se fuori dai canoni della bellezza tradizionale: come Patricia Allison (Ola), Tanya Reynolds (Lily) o Cal, ragazz* non binary interpretat* da Dua Saleh: sudanese di nascita, arrivat* negli Usa come rifugiat*, attore musicista e poeta, Dua Saleh parla di sé (in inglese, nella vita vera e nella serie come Cal) usando il pronome indeterminato they; dunque in qualche misura si auto interpreta e offre una visione del mondo non binario particolarmente utile al nostro pubblico, al nostro paese dove si discute se usare un asterisco significhi cancellare le donne. Ma le persone non binary esistono; si può far finta di no, però restano lì, a comprovare ostinatamente con le leggi della fisica che non ci si smaterializza né si diventa invisibili, anche quando gli altri vorrebbero tanto farti sparire.

Il punto è che Sex Education, sviluppata in UK, non sarebbe pensabile in Italia. O almeno: forse sì su una piattaforma di streaming, certamente no sulla tv generalista. E il problema vero non è naturalmente il sesso, ma attraverso il sesso, la libertà di essere come si vuole; una volta di più mi trovo a raccontare di una serie che apre squarci su come si vive altrove, e per comparazione, sugli orizzonti ristretti di cui ci dobbiamo contentare nei patrii confini.

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