Prima dell’esplosione della pandemia da Covid-19 – che come si dirà presto, nel prossimo post, è strettamente connessa alle problematiche della food safety – il tema della sicurezza alimentare è stato al centro di molte discussioni e dibattiti, in varie discipline, nonché fonte di numerose preoccupazioni. Sono almeno due le caratteristiche salienti che ci aiutano a definire la sicurezza alimentare, inquadrandone gli aspetti più problematici: la prima consiste nella multidimensionalità o complessità; la seconda è invece l’extra-nazionalità della materia in parola.
Con riferimento al primo aspetto, possiamo dire che la materia della sicurezza alimentare ha ad oggetto le sostanze o i prodotti, trasformati, parzialmente trasformati o non trasformati, destinati all’assunzione da parte degli esseri umani (escluse alcune sostanze, come tabacco o medicinali). Affinché sia garantita la sicurezza di tali prodotti (quindi la salubrità, la non pericolosità per le persone) le autorità competenti devono regolare e vigilare la produzione, il confezionamento, il trasporto e la commercializzazione delle sostanze in esame.
Le principali finalità che attengono alla regolazione del settore della sicurezza alimentare sono almeno quattro: assicurare un elevato livello di tutela della salute in generale; tutelare gli interessi dei consumatori; garantire la libera circolazione e la produzione di alimenti e mangimi; rafforzare l’integrazione e l’armonizzazione normativa tra gli Stati attraverso una base comune per le misure che disciplinano i prodotti alimentari.
Le amministrazioni competenti, dunque, si trovano di fronte a una disciplina complessa e composita, cioè mista, che integra più regolatori e cura più interessi, in cui non vi è una gerarchia netta tra questi ultimi. Queste sono quindi chiamate a bilanciare tali interessi, prendendo, di volta in volta e in conformità alle norme previste, delle decisioni che possono sacrificarne taluni, a vantaggio di altri.
Tra i vari interessi in gioco, come si avrà modo di notare anche in futuro, in questo spazio, c’è quello del libero commercio mondiale: definire un cibo non sicuro significa bloccarne o limitarne la produzione e la diffusione, con importanti perdite economiche per chi lo produce. Questo significa che la tutela della salute da prodotti alimentari può diventare una barriera commerciale, una misura protezionistica, magari discriminatoria. Con effetti anche sulla produzione di quei cibi. Di qui, la regolazione di tale materia è particolarmente delicata, perché spesso in bilico tra far pesare di più la tutela della salute (o una presunta tutela della salute: in questo discrimine, ovviamente, c’è un mondo) a discapito del commercio e correre qualche rischio, a vantaggio del secondo e a sacrificio della prima. Anche se la scelta, oggi, ci pare ovvia e scontata, sinora, per le autorità competenti a regolare la materia, non lo è stata.
Quanto alla seconda caratteristica, l’extra-nazionalità, si deve dire che garantire la sicurezza e la salubrità dei prodotti alimentari non è più di esclusiva competenza nazionale: i cibi viaggiano da Paese a Paese, sono coltivati in un luogo, lavorati in un altro, confezionati in un altro ancora, per essere poi consumati in numerosi altri luoghi. La filiera alimentare non ha origine e termine entro i confini nazionali, al contrario essa può frammentarsi in diverse catene alimentari, scomponendosi orizzontalmente e svolgendosi in diversi territori. Ecco perché le regole della sicurezza alimentare devono essere stabilite e applicate su scala mondiale. Devono essere comuni, condivise. Questo è tanto più vero oggi, in tempi di globalizzazione delle economie; ma la governance di tale materia ha una rilevanza internazionale già da metà del secolo XX, con la creazione della FAO e dell’OMS – e successivamente della Codex Alimentarius Commission (CAC) (http://www.fao.org/fao-who-codexalimentarius/en/).
La regolazione e il controllo di tale materia, quindi, non sono più disciplinati esclusivamente dal diritto interno di ciascuno Stato. All’opposto, necessitano di principi e autorità comuni o in cooperazione tra loro. Sono, inoltre, influenzati da norme extra-statali o integrati in procedimenti di decisione a carattere globale o europeo, che producono i loro effetti in modo uniforme nei diversi territori nazionali.
E gli individui? I consumatori? Cosa possono fare come singoli o in gruppi di fronte a un tale scenario? Come vedremo nel corso degli interventi che popoleranno questo blog, ci sono molte iniziative da intraprendere per far sì che i cibi che mangiamo ogni giorno siano il più possibile sicuri. Oggi cominciamo con due consigli basilari, molto pratici, ma sempre validi: diversificare i prodotti e privilegiare la filiera corta.
Per ciò che riguarda il primo, se gli alimenti di cui ci nutriamo contengono sostanze nocive per il nostro organismo è fondamentale non alzare troppo le dosi, cosa che accadrebbe se mangiassimo sempre gli stessi cibi. Variando la dieta potremmo anche variare le dosi di veleno che assumiamo giornalmente e queste avrebbero un effetto complessivamente meno nocivo sul nostro organismo.
In secondo luogo, un alimento che ha viaggiato poco, che non è stato conservato per lunghi periodi, che non ha subito vari trattamenti, avrà più probabilità di essere sano rispetto a uno che ha viaggiato per tutto il mondo prima di finire sulla nostra tavola. Privilegiare la filiera corta, i cosiddetti km 0, aumenta le nostre probabilità di mangiare cibo non contaminato da agenti esterni. Inoltre, il sistema di sicurezza alimentare italiano ha dato prova, sin qui, di essere efficiente ed efficace.
Infine, due consigli legato al mondo dell’intrattenimento: un libro e un film. Il primo è un saggio agile e piacevole, accessibile a tutti, con denunce molto importanti. È di qualche anno fa, ma ancora attuale: Raj Patel, I Padroni del Cibo, Milano, Feltrinelli, 2008.
Il secondo è invece un documentario efficace e dirompente, anch’esso non recentissimo, ma sempre valido: Food Inc., di Robert Kenner (qui un po’ di info: http://www.takepart.com/foodinc/).