Prima l’ho dovuto vedere, Squid Game, e poi digerire almeno abbastanza da poterne scrivere. Nel frattempo, è diventata la serie di maggior successo della storia di Netflix, nonostante sia disponibile solo in coreano sottotitolato. Uscita il 17 settembre 2021 in tutto il mondo, nelle prime 4 settimane ha conquistato 142 milioni di spettatori. Internet sta già discutendo di come verrebbe accolta una eventuale versione made in Usa.

Ed è anche scoppiata la solita polemica, questa volta però non solo italica. “Non dovrebbe essere visto dai minori di 16 anni” assicura un pediatra, Damon Korn, al Washington Post. Stesso parere in Gran Bretagna da una commissione per l’istruzione del Bedfordshirei bambini giocano a Squid Game in cortile, i bambini imitano tutto, Squid Game è pericoloso. Onestamente non so se sia vero; è vietata ai minori di 14 anni (e c’è sempre il filtro famiglie).

So che a meno di dieci anni in un periodo in cui vivevo a casa di mia nonna, leggevo con gran gusto un’antologia di novelle di Maupassant; quando la nonna lo scoprì mi furono sottratte come inadatte alla mia età. Scoppiò uno scazzo megagalattico, perché ero testarda quanto lei; ma lei era adulta e vinse. In effetti avevo già avuto gli incubi per la storia di un cavallo lasciato morire lentamente di fame, e un altro paio di novelle non inducevano a sonni sereni.. e allora? Ci sono pediatri secondo cui i bambini possono affrontare tutto, purché abbiano figure di riferimento accanto (ma io non ho figli, facile parlare).

Semi spoiler, attenzione!

Diamo comunque per accertato che non si tratti di un prodotto per bambini. Ma non è solo la violenza a preoccupare pediatri e genitori: bensì che sia molto difficile distinguere fra buoni e cattivi; o meglio, anche i buoni diventano cattivi, loro malgrado. In breve: qualche centinaio di disgraziati, gente senza soldi per i motivi più vari, viene adescata in località segreta per giocare e vincere una enorme somma di denaro. Le gare, ironicamente, sono su giochi da bambini: da Uno due tre stella Korean version (c’è in tutto il mondo, pare!), fino a Squid, calamaro, ojingeo in coreano, dalla forma del campo da gioco disegnato a terra. Funziona come fossimo a Masterchef: gli eliminati scompaiono, gli altri vanno avanti; ma qui gli eliminati non escono dalla porta in fondo, sono ammazzati, in massa e cruentemente, man mano che non soddisfano i criteri del gioco.

Tutto ciò, si scoprirà, per il divertimento di un gruppo di VIP (inglesi, americani, russi) che arrivano anche di persona ad assistere agli ultimi due giochi; mentre nell’isola si infiltra un poliziotto che vuole svelare il mistero.

Coloratissimo

I giochi si svolgono in atmosfera quasi onirica per i colori pastellati da campo bimbi (ci sono contrasti di colori belli e vivi quanto negli abiti de La Fantastica Signora Maisel, serie Amazon di cui attendiamo ancora la quarta stagione, a proposito). Colorati sono i rossi costumi delle guardie del campo. Si aggiungono alla meraviglia estetica il cast sfavillante, e la scrittura e direzione di Hwang Dong-hyuk, celebre regista e sceneggiatore sudcoreano, qui alla sua prima prova tv.

Serie anticapitalista?

Attenzione: sempre più spoiler, poi non dite che non ve l’avevo detto. Il primo disgraziato che incontriamo nella serie è uno che non ispira grande compassione: gioca alle corse, inconcludente, delude costantemente la figlia e la madre: Seong Gi-hun (la pronuncia dei nomi in coreano è peggio del gaelico) interpretato dal meraviglioso Lee Jung-jae. Solo più avanti scopriremo che anche lui è vittima della lotta di classe, ex operaio in una fabbrica di automobili chiusa nonostante i profitti, e che da questo crollo dipendono il suo divorzio e il suo essere generalmente quel che si dice un fallito. Gi-hun vorrebbe salvare la madre diabetica, che non ha i soldi per l’operazione (il sistema sanitario sudcoreano, en passant, funziona con assicurazioni legate al posto di lavoro ma le cure ospedaliere non sono gratuite).  Ma c’è altro: un povero vecchio interpretato da Oh Yeaong-su; Kang Sae-byeok, ragazza in fuga dalla Corea del Nord che vorrebbe salvare il fratellino dall’orfanatrofio (è la bellissima modella e attrice Jung Ho-yeon); Cho Sang-woo, un geniale broker ricercato dalla polizia per furto, interpretato da Park Hae-soo; un gangster in rotta dal boss e dai croupier filippini, il temibile Jang Deok-su (l’attore è Heo Sing-tae); e per non farsi mancare nulla c’è anche un migrante in difficoltà, il pachistano Abdul Ali (Anupam Tripathi), per cui il sogno sudcoreano è andato in pezzi. Un campionario di umanità disperata, disposta a giocarsi la vita per i soldi. Perché tanto, come dice qualcuno, lì fuori è un inferno peggio che dentro.

Solo che anche dentro è un inferno davvero. Se in molti hanno acclamato Squid Game come una critica feroce del capitalismo, e di un sistema fintamente meritocratico, l’atmosfera del campo giochi è quella del campo di prigionia di un sistema totalitario: disumanizzazione, una camerata unica di letti di ferro, privazione dei diritti elementari, zero privacy, cibo scarso, si può morire per un sì o per un no come scriveva Primo Levi, homo homini lupus: man mano che si va avanti ognuno farà le sue scelte fra amicizia/fedeltà e tradimento pur di prevalere, ed è questo il vero scandalo, la peggiore violenza della serie.

Plana sulla società sudcoreana lo spettro del Nord comunista (il paese da cui fugge Sae-byeok, che ha visto morire la madre alla frontiera) e della vicina Cina connivente con Pyongyang (le guardie cinesi le hanno rispedito indietro il padre). E se tutto il gioco è orchestrato per il divertimento di un pugno di VIP, e gestito da guardie crudelissime con il viso sempre mascherato e anonimo, non è forse vero che ogni sistema totalitario ha il suo cerchio magico, i suoi apparatchik e i suoi kapò? Ma anche la sua presunta parità di condizioni di partenza: succede che una guardia venga uccisa perché ha concesso a un giocatore un suggerimento (non per bontà d’animo, eh, non sia mai, ma perché quel giocatore era utile all’espianto e al traffico di organi, tanto per gradire). Il peccato mortale della guardia non è il traffico di organi, ma l’aver pervertito le condizioni di equità e giustizia del gioco mortifero: illogico paradosso da dittatura.

D’altra parte, chi esce dal lager vince una cifra pari a circa 33 milioni di euro. Il regista Hwang ideò questa storia nel 2008, e narra che scrivendola pensasse ai suoi guai giovanili da povero. Non trovò nessuno che finanziasse il progetto finché non è arrivata Netflix.

Un articolo del Guardian sottolinea del resto l’ironia di una serie che critica la società capitalista, ma che è essa stessa un successo di consumismo: il valore delle azioni di Netflix è salito di circa 20 miliardi di dollari da metà settembre.

Ma se Squid Game critica da un lato il capitalismo selvaggio e dall’altro i sistemi totalitari (la faccia del Sud e quella del Nord, per dire), cosa resta? Forse nulla. Forse la sua distopia è quella dei nostri tempi: non c’è rifugio, se non immaginare un mondo diverso, se ci riusciamo. Perché non è distopia. Come per il Racconto dell’Ancella di Margaret Atwood: non c’è nulla lì dentro che non accada tuttora da qualche parte del mondo in qualche momento, coinvolgendo, naturalmente, fra le vittime anche i bambini.

E qui gli spoiler sono pesantissimi

Andate avanti a leggere solo se l’avete vista tutta. Gi-hun, vincitore del terribile gioco, resta annientato per un anno, finché non scopre che il vero cervello della vicenda è l’amabile vecchietto che pensava di aver lasciato morire per salvarsi (e che partecipava alle gare per divertimento, per sentirsi ancora vivo). Questa scoperta lo galvanizza, finalmente ritira i soldi dalla banca, salva il fratellino della giovane nordcoreana (poteva pensarci prima, neh, gli ha fatto passare un altro anno in orfanatrofio) ma lo molla immediatamente, a una donna, of course, la madre del broker; e si starebbe dirigendo verso gli Stati Uniti dove la figlia è stata intanto trapiantata, solo che proprio alla fine succede qualcosa che lascia la porta aperta a possibili sviluppi. E dalla figlia non ci va, ennesimo abbandono. Per sapere cosa succede dovremo aspettare la seconda stagione, quando Hwang Dong-hyuk deciderà di scriverla, perché al momento sta lavorando a un altro film.

Ma in conclusione… senza spoiler

Hwang, che con i suoi primi cortometraggi aveva già sfondato a Hollywood, ha scritto storie molto variate: alcune parlano di adozione, Dogani racconta degli abusi in una scuola per bambini sordi; il terzo, per sua ammissione, è “un film allegro e leggero, perché io sono una persona divertente”; il quarto racconta un episodio della seconda invasione manciù della Corea. Allora cos’è Squid Game? Anzi, deve per forza essere qualcosa? Non per caso piace anche ai bambini, pericoloso o no: ha tanti livelli di lettura. Guardatelo, vi resterà dentro.

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