Prima di leggere questo pezzo chiedete ad Alexa di riprodurre il concerto per pianoforte n.1 di Čajkovskij, e ascoltatelo mentre leggete, e alla fine del pezzo capirete perché. E’ qualcosa che ha a che fare con il coraggio e con le Olimpiadi.
Fatto? Bene. Procediamo. Che i Giochi Olimpici e, forse soprattutto, quelli Paralimpici siano esempio di grande coraggio è cosa, storicamente nota. Da Luz Long, ai boicottaggi, alle proteste per i diritti civili dei neri sono tanti i gesti sportivi che possono essere visti come atti di ribellione rispetto al timore di esporsi.

Quelle di Tokyo2020, però, hanno un concentrato di storie e di atti di coraggio, più o meno eclatanti, che merita di essere preso in considerazione, a partire dal loro stesso inizio, con il coraggio del Giappone e dei suoi Comitati Olimpico e Paralimpico di rimandare i giochi, dopo che la macchina si era già messa in moto, e di svolgergli un anno dopo senza pubblico e con mille incognite.

Tokyo2020 ha visto il maggior numero di atleti LGBTQ+ dichiarati in un’edizione dei giochi. Non credo che in numeri assoluti essi siano aumentati in un quinquennio olimpico, credo però, questo sì, che sia venuto meno il timore di esporsi, di dichiararsi con naturalezza, come ha fatto la nostra Alice Bellandi: “amo il judo e Chiara”, così, semplicemente, senza troppi giri di parole. Nonostante siano anni che Tom Daley lavori a maglia e venda i suoi manufatti per raccogliere fondi per le associazioni a sostegno della comunità LGBTQ+, vederlo lì, in tribuna, a fare il tifo per i suoi compagni, con i ferri in mano a creare il suo porta medaglia in lana, credo che abbia rafforzato il concetto di normalità che ciascuno di noi rappresenta con il suo essere se stesso.
C’è stato il coraggio di Simon Biles di ritirarsi dalla competizione a squadre e da alcune finali individuali perché “devo occuparmi della mia salute mentale”, sdoganando così uno dei più grandi tabù della storia sportiva: non tutto dipende dal corpo e dell’allenamento, anche la mente va protetta.

E poi la storia, per fortuna a lieto fine, dei due atleti paralimpici Afghani Hossain Rasouli e Zakia Khudadadi che hanno rischiato di vedere sfumare il loro sogno con il ritorno dei Talebani alla guida del Paese, salvo poi trovare aiuto nei soldati australiani e in alcune ONG che sono riusciti a portarli fino a Tokyo per partecipare alle loro gare.

La squadra dei rifugiati politici è decisamente l’emblema delle olimpiadi del coraggio. Atleti a cui è stato tolto tutto, che per anni non hanno potuto partecipare a competizioni internazionali e che invece, grazie a questa intuizione, possono tornare a fare ciò per cui hanno faticato una vita intera. “Competere alle Olimpiadi è stato come essere riportato in vita” ha detto Cyrille Tchatchat, sollevatore di pesi originario del Camerun che ora vive e lavora nel Regno Unito. E sempre a proposito di rifugiati c’è poi stata la storia della velocista bielorussa Krystina Tsimanouskaya che, rea di aver criticato il Comitato Olimpico Bielorusso con a capo Viktor Lukashenko, figlio del presidente, stava per essere rimpatriata con la forza. Tentativo sventato prima dalla polizia Giapponese e successivamente alle autorità polacche che l’hanno accolta dandole asilo.

Quelle Giapponesi, insomma, sono state olimpiadi e paralimpiadi difficili fin da subito, complesse per organizzazione, partecipazione e copertura mediatica. Un appuntamento che però porta in sé un seme di rinascita, di rivincita, di condivisione e di partecipazione. Cinque settimane che hanno fornito un grande esempio di come, dopo un anno e mezzo di vita vissuta nella paura di una pandemia, sia necessario rivendicare il diritto ad essere liberi dalla paura. Almeno da quelle più piccole, da quelle che possiamo controllare, da quelle che possiamo decidere di affrontare. Piccoli e grandi semi di coraggio piantati nell’evento più universale di tutti.

Il brano scelto dal RCO per festeggiare i propri Ori

E poi c’è il coraggio del Comitato Olimpico Russo, che nonostante la Russia sia stata squalificata per due anni per doping di Stato e non ha quindi potuto partecipare con la sua bandiera e il suo inno nazionale alle competizioni, ha comunque qualificato decine di atleti di altissimo livello e ha chiesto, e ottenuto, dal CIO che in caso di vittoria fosse suonato un estratto del Concerto per pianoforte n.1 di Čajkovskij. Si, proprio quello che state ascoltando mentre leggete. Ed è con questa suggestione che vi lascio, una sinfonia che potrebbe sembrare poco attinente al tema del blog, ma che invece è diventata simbolo del coraggio degli atleti che non si sono arresi.

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