Continuano le mie conversazioni letterarie, continua la mia ricerca e la mia penna come una spugna assorbe dai grandi autori con cui ho il piacere di confrontarmi.

Elisa Ruotolo è nata nel 1975 a Santa Maria a Vico (Ce) dove vive tuttora. Insegna Italiano in una scuola superiore. Ha esordito per Nottetempo nel 2010, con la raccolta Ho rubato la pioggia, vincitrice del Premio Renato Fucini e finalista al Premio Carlo Cocito 2010.
Nel 2014 ha pubblicato, sempre per Nottetempo, Ovunque, proteggici, selezionato dalla Commissione del Premio Strega 2014 e presentato al premio da Marcello Fois e Dacia Maraini. Nel 2021 è uscito per Feltrinelli Quel luogo a me proibito.

Elisa Ruotolo, la prosa e il verso

La sua storia letteraria oscilla tra la prosa e il verso e ci consegna un autrice consapevole della multiforme materia artistica con la quale appare aver un dialogo costante, quale è dunque la sua prediletta forma di espressione?
In verità la mia unica predilezione si rivolge alla parola, la scelta poi della forma attraverso cui
esprimerla è intimamente connessa all’idea primaria. Ogni volta che qualcosa mi attrae, quel
qualcosa sembra suggerirmi anche la sua veste più idonea. Sicuramente ci saranno delle ragioni evidenti (principalmente quelle di aderenza tra forma e contenuto), ma ho motivo di credere che la verità sia più nascosta e inenarrabile. Difficile da condividere senza fare appello all’incomunicabile.

Quando ho conosciuto il mondo delle api, ad esempio, e il rigore immutabile dei ruoli che lo
governano, non ho esitato a immaginarlo come un microcosmo che poteva essere raccontato solo con un andamento da tragedia greca (e con la musicalità drammatica tipica del suo coro). Da quella moltitudine informe sentivo il bisogno di trarre l’unicità del singolo, anche se la singolarità resta fuori dalla Casa del Miele.


È nato così il mio piccolo poema edito da Crocetti e intitolato “Alveare” .
Allo stesso tempo, quando ho avuto bisogno di perdermi in una lingua rocciosa e fitta, che rifletteva un pullulare di storie, non ho esitato e ho scelto di abitare il romanzo (il mio primo, intitolato “Ovunque, proteggici”. Confesso, inoltre, di avere una sorta di “sindrome dell’opera prima”: ogni libro che scrivo mi piace consideralo un esordio e provo ad addentrarmi nell’inesplorato – come in un sentiero che mi attiri dove non sono ancora stata.

Lo spazio si fa poetica nella sua scrittura, rompendo i confini temporali lo si trova quasi protagonista della sua voce narrante, in quale spazio vive attualmente la sua penna?
È vero ed è spesso uno spazio angusto che forza i propri argini: credo che sia una costante del mondo che racconto da sempre (in prosa come in poesia). Attualmente sto sperimentando la scrittura teatrale (un desiderio accantonato per anni) e tentando di nuovo la strada del romanzo (che avrà l’onere di portarmi dove finora non mi sono mai spinta: nel presente che abito tanto faticosamente, e comprendo a fatica).

Immedesimarsi nei propri personaggi

Nei suoi romanzi è facile immedesimarsi nello stato emotivo dei suoi personaggi e con loro viverne ogni pulsante variazione, come dialoga con loro nella stesura delle sue opere ?
Sono felice che arrivi questo, perché con i personaggi ho sempre un lunghissimo e faticoso corpo a corpo. Inclini alla sottrazione, restano nell’ombra: forse fanno semplicemente il loro mestiere. Io li seguo e provo a decifrarli adagio, con la perizia dell’entomologo o di Dio. Tento ogni volta di capirne le ragioni e lo faccio abitando quelle vite che non mi appartengono, ma in cui devo imparare a respirare. Finché non divento loro, finché non assorbo il loro modo di muoversi, di parlare, di occupare un posto nel mondo, non troverò la voce. E la voce di una storia è tutto. Poi, siccome lavoro senza trama e senza finale (come direbbe Čechov), spesso mi capita di seguire un personaggio che a un certo punto dovrò abbandonare. È il rischio – ma anche il fascino – di questa sghemba modalità che imita il ritmo della vita, dove incrociamo vite per un attimo irripetibile. E poi mai più.

In una recente intervista a Mariagrazia Calandrone ho avuto da lei questa risposta sulla natura della sua poetica : ricerco la voce negli oggetti nei miei versi.
La sua poetica dove guarda e come nasce?

La realtà mi è sempre sembrata tutt’altro che banale e abitabile. Il reale è il vero mistero e io
resto senza fiato davanti al suo enigma. Quando scrivo provo a capire, a vedere meglio – come attraverso una lente potentissima – quel che normalmente non so mettere a fuoco. Tutto ciò che ho scritto, che scrivo e che (spero) scriverò, nasce quindi dal bisogno di comprendere quel che sembra chiaro solo se si resta in superficie. La poesia, in particolare, è l’incomunicabile che si fa parola. È il mio secondo linguaggio: quello che uso per ribattezzare il mondo.

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