Se sei appassionato di letteratura americana, uno con un nome così prima o poi lo devi leggere, per forza. Se per di più ne parlano come di uno degli scrittori più importanti di quell’immensa nazione, beh, la cosa si fa ancora più interessante.

Lo scrittore in questione è Breece D’J Pancake, nato in West Virginia nel 1952 e morto suicida nemmeno 27 anni dopo. Qualcuno istintivamente potrebbe anche pensare: «va be’, giovane scrittore talentuoso, suicidio, caso letterario, ho già capito» e invece no, «Si tratta semplicemente del più grande scrittore, del più sincero che abbia mai letto. Quello che temo è che questo gli abbia dato troppo dolore, non c’è nessun divertimento a essere così bravi. Ma né tu né io lo sapremo mai» diceva uno che di letteratura se ne intendeva, vale a dire Mr. Kurt Vonnegut. Insomma mettetela come volete ma se vi capita tra le mani Trilobiti, l’unica raccolta di racconti che ci ha lascito Pancake, – uscita in Italia per Minimum Fax con la traduzione di Cristiana Mennella – non ve la fate scappare, per nessun motivo.

Dodici racconti folgoranti, dodici punte di freccia ritrovate nella terra aspra dell’altopiano degli Appalachi o tra la ruggine di una miniera abbandonata. Un viaggio nei paesi, dentro le case, nelle stazioni di servizio di uno dei luoghi economicamente più depressi degli Stati Uniti. I protagonisti sono quasi tutti uomini, minatori, marinai, agricoltori, studenti e sono squattrinati e in constante conflitto con quei luoghi: da una parte il desiderio di andare via, dall’altra una forza contraria che non li fa muovere o li riporta al punto di partenza.  

Chester è stato più furbo di un topo di fogna perché se n’è andato prima che cominciasse a piovere merda”. Scrive Pancake nel racconto intitolato La mia Salvezza, «ma Chester aveva due problemi: primo, ha avuto successo nella vita, secondo, è tornato».

Il fiume, le miniere, la montagna e le fattorie fatiscenti sono lo sfondo di racconti intensi e commoventi, violenti e spietati, dove la polvere di carbone e la ruggine si fondono con la rugiada di una natura quasi incontaminata. Lo stile di Pancake è diretto ma al contempo estremamente raffinato ed i personaggi, sono talmente immediati che ci si affeziona perfino a quelli più detestabili e forse la sua grandezza sta proprio in questo, nella capacità di scuoterti e di farti appassionare alle gesta di qualcuno che non ha niente di positivo oltre alla sua miserabile vita ed a un futuro ineluttabile. C’è una cura maniacale nel descrivere i dettagli e nel condensare in poche parole i rimpianti di una vita. Tu leggi e cominci a sentire la puzza di piscio e bourbon, le mani sporche di grasso di motore, il gusto ferroso di sangue nella bocca e il battito del cuore della volpe braccata dai cani. In questi dodici racconti gli animali sono sempre presenti, una volta come semplici elementi di una scena bucolica, un’altra, come vittime del disagio o solamente della fame e della miseria di qualche personaggio.

Come tutti quelli che popolano i suoi racconti, anche Pancake sente profondo il legame con il West Virginia che è l’elemento imprenscindibile senza il quale queste storie non evocherebbero le stesse sensazioni. Il tempo scorre lento e inesorabile, come l’acqua del fiume Ohio e niente cambia e niente cambierà, le scelte sono compiute e si può solamente accettare il proprio destino, inchiodati lì, fossilizzati come trilobiti.

«Apro lo sportello del camioncino, smonto sulla stradina di mattoni. Guardo di nuovo Company Hill, consumata e tonda. Tanto tempo fa era tutto un dirupo e stava come un’isola nel fiume Teays. Ci ha messo più di un milione d’anni a trasformarsi in una collinetta liscia, e l’ho battuta da cima a fondo in cerca di trilobiti. Penso che è sempre stata lì e ci resterà per sempre, almeno finché serve. L’aria ha i fumi dell’estate. Un volo di storni fluttua sopra di me. Sono nato in questo posto e non ho mai smaniato per andarmene. Ricordo gli occhi senza vita di papà, che mi guardavano. Erano tutti secchi e questa cosa mi ha lasciato un po’ svuotato. Chiudo lo sportello, mi avvio verso la tavola calda».

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