È stato da poco tradotto da feminoska e curato da Marco Reggio e feminoska il testo dell’antropologa, primatologa ed etologa Dawn Prince-Hughes: Canti della nazione gorilla. Il mio viaggio attraverso l’autismo.

Autismo come luogo comune

In genere quando ci rappresentiamo mentalmente ciò che viene definito autismo cadiamo nei più banali luoghi comuni, o meglio, in un particolare luogo comune che vede Tom Cruise e Dustin Hoffman protagonisti del nostro immaginario. I due attori sono i protagonisti di un film – Rain Man, vincitore di diversi premi, tra cui l’Orso d’oro al Festival internazionale di Berlino nel 1989 – che ha in qualche modo forgiato la nostra percezione di che cosa sia questa… Come la vogliamo definire? Patologia?

L’autismo è una patologia?
Esiste l’autismo in quanto tale?

Ecco il film non ci porta a porci queste domande mentre il libro di Prince-Hughes sì. Ella ci pone davanti ad una verità scomoda, ma altrettanto sincera: come non esistono le persone ma i soggetti, non esiste l’autismo, bensì individui che hanno una sensibilità, una percezione e delle risposte peculiari alla realtà che li circonda.

Quella che riguarda Prince-Hughes è una forma di autismo ad alto funzionamento, una volta definita sindrome di Asperger – anche se oggi questo tipo di definizione non viene più accolta dal DSM preferendo appunto la perifrasi autismo ad alto funzionamento – e ha una caratteristica peculiare quella di saper utilizzare particolarmente bene la mimetizzazione, il coping così definito, in modo che queste persone possano confondersi con i neurotipici.

Faccio molta fatica a utilizzare queste parole, terminologie normative che mettono alle corde persone che semplicemente percepiscono il mondo a una velocità, a una potenza differente dalla maggior parte degli altri. Sono circondati da individui della loro specie, tuttavia sono imprigionati dentro loro stessi, all’interno di qualcosa di differente che li abita o meglio che loro abitano. Il loro corpo – e quando parlo di corpo parlo di massa, di fisico, di carne compreso il cervello, parlo di ossa, intestino, fegato, organi percettivi, sessuali – quindi è disuguale da quello fornito agli altri viventi della stessa specie (ma quale corpo è perfettamente identico all’altro e anche quale percezione esattamente lo è?) giacché la loro percezione delle cose non è in linea con la performatività che viene imposta oggi dalla nostra società perfettamente organizzata a tavolino e funzionale.

Scrive Prince-Hughes:

Siamo gli animali che non parlano la lingua giusta, non hanno l’aspetto giusto, non si muovono nel modo giusto

Essere isolati, le contraddizioni della “diagnosi”

Le persone autistiche ad alto funzionamento vengono spesso isolate per i loro comportamenti, non hanno particolare abilità nelle relazioni sociali (e come non comprenderli visto a cosa si sono ridotte le relazioni sociali oggi: un teatrino di falsità nutrito da social, messaggi e videochiamate – ah, scusate, dimenticavo i fashion aperitivi) hanno reazioni che per un neurotipico non sono giustificate e giustificabili e in ambito emotivo vengono definite poco empatiche. Questo è tutto quello che viene detto. Ma, non viene compreso il disagio che ogni giorno devono vivere individui che hanno la possibilità di percepire il mondo a dei decibel differenti da coloro che li circondano.

Ecco allora che si crea quella che viene definita una patologia. Ma è una patologia? Perché le persone ad alto funzionamento spesso non hanno una diagnosi fin tanto che non sono adulte, ma c’è bisogno di una diagnosi? Eppure, la maggior parte di loro dicono di sentirsi sollevate da questa definizione.

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Definire, delimitare, spiegare, giustificare.

Sì, certo, non voglio andare contro il DSM, né tanto meno semplificare una condizione di fatto complessa, tuttavia, vorrei suscitare delle criticità, quanto meno vorrei che non ci accontentassimo di definizioni che – per quanto rassicuranti – sono allo stesso tempo limitanti giacché delimitano un campo d’azione, una soggettività, una emozionalità.

Tuttavia, al contempo penso che una diagnosi aiuti non solo chi vive dentro una effettiva forma di diversità, ma anche abiliti, in un certo qual modo, le persone che vivono loro accanto ad accendere dei canali di comprensione che altrimenti resterebbero spenti. Ma sono strade verso l’altro che già possediamo se possiamo in qualche modo aprirle: perché abbiamo bisogno di qualcuno, qualcosa che ci autorizzi ad utilizzarle?

Mettersi al sicuro

L’animale umano è così preoccupato di rendere tutto rassicurante e sempre uguale a sé stesso; evidentemente preferisce l’usuale all’inaspettato, predilige l’individuo non individuo facile da piegare, da plagiare, da indirizzare. Un bravo ragazzo: prende buoni vuoti a scuola, va all’università (possibilmente economia a Milano) e poi svende la sua vita a una Multinazionale e – indossando giacca e cravatta – consuma la sua vita e inconsapevolmente, con innocenza, distrugge anche il pianeta dalla rassicurante tastiera del suo ufficio asettico. Rinuncia così alla sua unica possibilità di sentire. Siamo anestetizzati dal frastuono imperante e dai rimi incessanti di questa società. E – come evidenzia l’autrice intervistata da Reggio a fine del volume – oggi i casi di autismo ad alto funzionamento sono aumentati, non diminuiti. Ci sarà sicuramente una maggiore coscienza della particolarità di alcuni esseri viventi, ma vi è anche il fatto scabroso che questa è una società respingente: o ti adegui o sei malato.

Kafka e Pietro il Rosso

E qui mi viene in mente un racconto di Kafka, Una relazione per l’Accademia, contenuto nel testo Metamorfosi ed altri racconti (Mondandori) in cui una scimmia viene invitata all’Accademia – non si specifica quale – perché aveva imparato il linguaggio umano. Il possedere la lingua gli aveva salvato la vita, ma, di fatto, lo aveva al contempo privato di sé stesso, della propria animalità. Egli racconta di come, se non avesse assimilato il linguaggio, non avrebbe avuto alcuna via d’uscita; infatti, non anelava più alla libertà – come quando era libero di essere sé stesso, una scimmia – ma sperava solo in qualche forma di via d’uscita da quella gabbia in cui era compresso (non vi ricorda questa narrazione la condizione di una persona diversa che si assimila agli altri, imita gli altri, per trovare una qualche forma di accettazione?).

Dice Kafka per bocca di Pietro il Rosso:

Ed imparai, signori miei. Oh, s’impara quando si deve imparare; s’impara quando si vuol trovare una via d’uscita; s’impara disperatamente. Si sorveglia noi stessi con la frusta; ci si lacera le carni alla minima resistenza.

L’addestramento: ovvero l’abilitazione al mondo

Pietro il Rosso è stato oggetto di addestramento, una forma di “abilitazione al mondo” degli umani che lo volevano “a loro immagine e somiglianza” (questo amore che l’uomo ha per sé stesso tanto da celebrarsi ad immagine e somiglianza di un Dio) ed egli pur di trovare una via d’uscita ha fatto uscire da sé “con una corsa frenetica” la scimmia che lo abitava.

Questi siamo noi, animali umani: ci sentiamo minacciati dalla diversità, non abbiamo tempo né voglia per riconoscerla, ascoltarla, comprenderla, cullarla, curarla.

Perché Dawn Prince-Hughes potesse fare pace con la sua umanità – col suo essere un animale umano peculiare – è stata necessaria la mano di Congo, un gorilla che accolse Dawn in un momento di profonda lacerazione e sofferenza. Ella si identificò con quei poveri gorilla che tentavano in ogni modo di nascondersi nello Zoo in cui lavorava, mentre gli astanti si divertivano a vezzeggiarli, irritarli e stimolarli in ogni maniera possibile. Questi stimoli erano troppo per i gorilla – animali molto riservati – e quindi la loro reazione era quella della rabbia, della ferocia quando invece sono animali empatici, dolci, sono gruppi e famiglie che si sostengono l’uno con l’altro e che – se ti prendono sotto la loro ala prorettrice – non ti lasciano più.

Chi sono io?

Io odio i rumori, odio i luoghi affollati (ho avuto una pesantissima crisi di panico nella Metropolitana di Parigi, da quel giorno, di almeno dieci anni fa, non prendo praticamente più nessun mezzo pubblico eccetto il treno) da bambina gli altri bimbi non mi facevano giocare con loro, le relazioni sociali mi hanno sempre messo un’ansia terribile, per non parlare delle gite scolastiche, detesto frequentare locali, bere aperitivi e a volte mi immergo talmente tanto nella lettura e nella scrittura che mi dimentico di tutto. A volte anche del cibo. I miei cani mi hanno sempre presa e com-presa per quello che sono. Alto funzionamento o no. Sono empatica ma solo con chi intendo io. Ascolto ma anche no a volte. Dicono che sono particolarmente intelligente (ma anche su questo credo di saper fingere molto bene). Chi sono? Cosa sono?

Il punto non è questo, le domande giuste non sono queste quanto: c’è qualcuno là fuori che mi ascolta? C’è qualcuno che mi guarda non per giudicare la mia “stranezza”, ma per vedere davvero chi sono? C’è un abbraccio che non sia solo una promessa vana?

C’è un mondo in cui esistono ancora gli animali umani? (Questa domanda presuppone che secondo la mia filosofia l’unica salvezza per l’uomo di oggi sia un ritorno alla propria animalità: l’essere umano deve diventare animale umano).

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