Gelsomina Settembre detta Mina è la scontrosa e dinamica protagonista di Dodici rose a Settembre, romanzo scritto da Maurizio De Giovanni ed edito da Sellerio, che presto compirà un anno.

Gelsomina Settembre detta Mina è assistente sociale nei Quartieri Spagnoli, al consultorio Ovest (senza però che ce ne sia uno a Est). È una donna pratica, che, leggiamo, cercava di fronteggiare i bisogni quotidiani, riteneva si potesse esercitare poca meditazione zen con i bambini che piangevano per la fame e i topi che scorrazzano liberi sul pavimento: è agnostica, ma fervente credente nella GdM, la giornata di merda, non una giornata qualunque, ma una di quelle che proseguono coerentemente dall’inizio alla fine, come una sinfonia. Mina ha due problemi. Il primo ha un nome ed è Concetta, la madre. Il secondo, diversamente dal primo, deve portarselo in giro tutto il giorno, farci i conti ogni mattina: un seno prosperoso, davvero prosperoso, che sarebbe utile a una modella, ma è spesso un ingombro per un’assistente sociale. 

In un novembre di cui non si sente mai il freddo, in un luogo in cui le cose avvengono come sempre, tutte uguali, come fosse calata sulla città la maledizione di un’eterna ripetizione, si consumano delitti e violenze, lungo due linee narrative che, a lungo, sembrano non toccarsi: da una lato Mina e Robert Redford, o meglio, Domenico Gammardella, il ginecologo bello, dall’altro il Maresciallo Gargiulo, deficitario di perspicacia,  e il  magistrato De Carolis, deficitario di sensibilità, ma con uno spiccato intuito. 

La protagonista è Mina, ma lo sfondo entra prepotentemente in ogni dialogo, in ogni situazione: la storia è ambientata a Napoli e non potrebbe essere altrimenti.
Qui il contesto è prepotente, impossibile, quasi, chiamarlo sfondo. Il senso dell’umorismo divora ogni conversazione e ogni descrizione: e così le sostanze stupefacenti sono ingiustamente proibite e gli arresti per crimini di stampo mafioso errori giudiziari, il razzismo è inconsapevole (ma questa non è una prerogativa dei quartieri popolari). È  il mondo in cui il ricchissimo e il poverissimo paiono vivere in due città diverse: nel mondo del secondo tutto è fatiscente, tutto scalcinato, le porte, i muri, gli intonaci, le scale. È  il mondo in cui di chi usa l’italiano non c’è da fidarsi e se è vero che la lingua non è neutra, l’uso della  lingua standard allontana, separa addirittura, crea diffidenza ed estraneità.

Le strade delle Assunta detta Jessica, della dispersione scolastica come realtà assodata e, ancor peggio, accettata, sembrano un po’ quelle di Io speriamo che me la cavo. Maurizio De Giovanni maneggia dialoghi vivaci, ricchi di deissi, non mostra alcuna fatica nella regia di conversazioni che sembrano stralci di scenette teatrali: i napoletani di De Giovanni sono logorroici, pedanti, petulanti, non si negano alle digressioni e possiedono un gusto per il racconto tutto partenopeo.  De Giovanni strizza l’occhio, o così mi piace immaginare, alla Petra Delicado di Alicia Giménez-Bartlett (sembra possa arrivare da un momento all’altro l’aiuto di Fermin). 

Una rosa al giorno, a precedere un omicidio, 12 rose in tutto: il caso è raffinato, lascia l’amaro in bocca e la vendetta porta con sé più colpevoli. 
Una cosa ancora,  la dedica finale a Camilleri vale l’intero libro.

Condividi: