Non so voi, ma con questo distanziamento sociale che ci costringe a casa sento la mancanza dell’interazione di gruppo. Cosa che fino a poco tempo fa era impensabile, per me almeno valevano molto di più i momenti di raccoglimento, anche se spesso servivano a meditare sulle dinamiche di relazione con le colleghe, in famiglia o con gli amici. La nostra sfera individuale, di fronte ad un vuoto che non può essere certo colmato da tablet e smartphone, ora è invece messa a dura prova per certi versi, e per altri si consolida, ma quale sarà il prossimo impatto con i gruppi che regolano la nostra rete di affetti e di collaborazioni? In che modo la comunicazione ecologica può diventare una risorsa efficace per risolvere magari vecchie questioni su cui varrebbe la pena, forse, di metterci una pietra sopra?

Ho deciso di interpellare su questo direttamente il Prof. Pino De Sario, psicologo sociale, specialista in facilitazione, direttore della Scuola Facilitatori oltre che autore di numerosi libri che riguardano la comunicazione ecologica, tra i quali va segnalato il volume appena uscito Facilitazione (Angeli, 2021).
“La comunicazione ecologica è l’applicazione dei principi ecologici alle relazioni umane: coltivare le risorse di ogni persona, rispettare la diversità e nello stesso tempo mantenere una coesione globale in modo che le persone possano agire insieme per un obiettivo comune. Quando parliamo di ecologia parliamo di rispettare la natura e la natura umana, che di principio è collaborativa ed empatica. Se osserviamo con attenzione ci possiamo ben accorgere che nella nostra comunicazione quotidiana non sempre la rispettiamo. Abbiamo delle spinte ambivalenti, una natura variabile, sia costruttiva che distruttiva. Ad esempio quando siamo dogmatici o quando educhiamo con coercizione, quando facciamo critiche negative, quando interrompiamo l’altro mentre parla, ma anche quando solidarizziamo, quando sentiamo il bene per l’altro, quando facciamo gruppo...

Scusa se ti interrompo ma la domanda è d’obbligo: se l’interlocutore mette in atto l’atteggiamento critico che stai descrivendo, come farglielo notare? Com’è possibile agire nell’ambito del buon senso senza urtare la sensibilità altrui?
Vedi? Continuiamo a mettere in atto diverse trappole comunicative, perché? Alcuni atteggiamenti ecologici nella comunicazione possono sembrare regole di buon senso. Pensiamo di saper comunicare, che vogliamo bene alle persone con cui viviamo o con cui condividiamo un obiettivo… ma il buon senso non basta perché le nostre abitudini le abbiamo apprese da piccoli, siamo stati condizionati dal nostro ambiente e dal vissuto dei nostri antenati che non hanno comunicato con noi in maniera ecologica ed abbiamo attivato inconsapevolmente determinati meccanismi di difesa. Il Buonsenso da solo non funziona perché nel relazionarci ci capita di aver paura di quello che potremo subire nuovamente e difendiamo a spada tratta la nostra ragione per non svelare una ferita che risale al periodo dell’infanzia, quando si forma la nostra personalità, il piano dell’apprendimento. Ma presentiamo anche un piano innato, dove funzionamenti corporei ed emotivi agiscono rapidamente molto prima che la razionalità ci possa aiutare. Per migliorare la comunicazione possiamo formarci a nuovi strumenti e a nuove conoscenze. Per esempio noi cerchiamo l’altro ma anche tendiamo a rifuggirne. Siamo elastici, incoerenti e complessi. Già averne coscienza ci fa fare un grande passo in avanti. Poi apprendere qualche nuovo strumento è importante, per esempio la critica costruttiva, l’apprezzamento, la parola chiave, il terzo tempo.

E che ne dici del nostro repertorio gestuale? Non credi si stia atrofizzando con questi continui lock down? Davvero sarebbe il momento di dare loro una verniciata di fresca consapevolezza prima del nostro ri-debutto in società, no?
Esistono due tipi di gestualità: quella involontaria e irrinunciabile, e un’altra che potremmo definire intenzionale. È bene essere consapevoli della prima e conoscere la seconda, perché gesticolare significa dare corpo ai pensieri. Possiamo quindi rimarcare la valenza corporea con cui migliorare l’atto comunicativo, perché divenga meno astratto e più capace di senso.

Tutto bello a parole, ma per mettere tutto questo in pratica?
“Per praticare una comunicazione ecologica occorrono in ogni caso delle competenze di base, esistono delle metodologie volte a facilitare la comprensione, il confronto e il dialogo. E comunque ci vuole allenamento, pratica, per sovvertirle perché in automatico riproponiamo un vecchio schema. Esistono svariate discipline olistiche o semplici esercizi che aiutano a curare e rinnovare l’energia, vivere il momento presente, relazionarsi ponendosi in ascolto, agire in consapevolezza, sentire e stare nelle emozioni, aprirsi o proteggersi, ad affrontare la nostra dualità: l’insieme di fattori razionali e irrazionali; il pensiero cosiddetto diurno, proteso al fare e al mostrarsi, e quello notturno, focalizzato sul rimuginare e fantasticare. Sono pratiche che generano ‘bioenergia’ e che migliorano la connessione corpo-mente, che amplificano la percezione del sistema cervello-relazioni-ambiente e ci aiutano ad oltrepassare il confine che ci autolimita in un territorio esistenziale dove abbondano dicerie, luoghi comuni e concetti stereotipati.

Del tipo che… se sentissi l’esigenza di fare una pausa, meglio interromperti o fingere di ascoltarti solo per educazione? Che ne dici Pino se riprendessimo il discorso nel prossimo blog?
“Sono a tua disposizione…”.

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