Il termine metaverso nasce in un contesto fantastico, quello della letteratura cyberpunk, per diventare sempre più un orizzonte concreto dell’economia e della socialità umana.

Quando ci è stato presentato Meta, il cappello sotto cui operano oggi Facebook e Instagram, in tant3 ci siamo chiest3 se il metaverso fosse diventato a suo modo reale, affiancato e intrecciato alla realtà fisica, forse addirittura destinato a sostituirla.

Gli step verso il metaverso

Oggi ripercorriamo con la nostra blogger Silvia Guzzetta gli step che hanno portato lo spazio virtuale a diventare il contenitore – promesso o già operativo – delle più diverse attività umane, non solo per esperti e smanettoni ma per comuni cittadin3 di tutto il pianeta.

Le prime applicazioni a portare l’interattività dei social dentro un ambiente completamente virtuale, racconta Guzzetta, erano videogames. La crescita esponenziale oltre l’ambito ludico è arrivata con il Covid, quando gli spazi virtuali sono diventati il luogo della socialità per centinaia di migliaia di persone che in rete si incontravano, lavoravano, studiavano, facevano acquisti ma anche partecipavano, attraverso simulazioni tridimensionali, ad attività che solitamente si svolgono in luoghi fisici come conferenze, concerti, visite nei musei.

Nuove abitudini diffuse di comportamento e di consumo, nuovi promettenti orizzonti di sviluppo per l’imprenditoria digitale; tendenze che anche dopo la fine dei lockdown continuano a prosperare, rendendo l’accesso allo spazio digitale e gli strumenti che ci permettono di connetterci un ingrediente sempre più irrinunciabile delle nostre vite reali.

Insieme ai vantaggi della connettività globale, riflette la nostra blogger, c’è un aspetto che non dovremmo trascurare: un numero crescente di facoltà e libertà delle persone si realizza passando per un unico spazio. Non c’è separazione tra le stanze mentali in cui studiamo, giochiamo, compriamo, ci incontriamo, usufruiamo di questo o quel servizio… semplicemente perché nel metaverso si può fare tutto, senza bisogno di uscirne.

È una comodità, o una gabbia che l’abitudine ci impedisce di vedere? Ci sono ambiti, come quello dell’educazione, in cui sostituire completamente il contatto umano con strumenti tecnologici rischia di generare una sofferenza psichica che sarebbero (sono) i più giovani a pagare? Domande che l’entusiasmo per il nuovo non dovrebbe mettere a tacere.

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