“Recyclying and planting trees are feelings more than actions”. Così afferma Jonathan Safran Foer in Possiamo Salvare il Mondo Prima di Cena (Guanda 2019). Ovvero: fare la raccolta differenziata e piantare alberi non sono soluzioni alla crisi climatica, ma azioni simboliche che ci fanno sentire in pace e contenti di noi stessi.

Argomentazione interessante, ma nel discorso portato avanti da Foer pare esserci un problema. Possiamo Salvare il Mondo Prima di Cena è una collezione di fatti e aneddoti più o meno curiosi tramite i quali Foer si concentra sulle azioni individuali che, però, ridotte ad una prospettiva individualista, rischiano di diventare ciò che Foer rifugge: feelings more than actions.

Le quattro azioni collettive che Foer giustamente cita come le più significative per contrastare la crisi climatica a livello individuale sono: evitare di prendere l’aereo, vivere senza macchina, avere meno figli e, soprattutto, non mangiare carne. O mangiarne molta meno. Il libro si sviluppa principalmente intorno a quest’ultimo punto. Una persona che non mangia più carne non cambia il mondo, dice Foer, ma migliaia di persone che non mangiano la carne sì.

L’industria della carne ha un altissimo impatto ambientale e smettere di mangiare carne è indubbiamente un’azione utile. Ma come ci si pone rispetto a questa azione? Non ci si può fermare alla prospettiva individuale. La scelta di comprare o meno carne o di comprare carne più o meno sostenibile non deve e non può ricadere soltanto sul singolo consumatore. Il punto è che il consumo di carne, così come altri comportamenti, non può essere pensato solo a livello di scelte individuali, ma va affrontato a livello strutturale. Non è una responsabilità che ricade in egual misura sul consumatore e sull’industria agroalimentare.

Per fare un esempio di singole azioni individuali che possono fare la differenza se rese collettive, Foer racconta di quando, durante la Seconda guerra mondiale, intere città della costa orientale degli Stati Uniti spegnevano tutte le luci al tramonto. Non perché loro fossero in pericolo, ma per fare in modo che le U-boats tedesche non usassero le luci della città per trovare e distruggere i vari porti americani. Tante piccole finestre rimaste al buio non hanno vinto la guerra, dice chiaramente Foer, ma probabilmente la guerra non si sarebbe potuta vincere senza. Come dice Kate Aronoff in un articolo apparso su The Nation, a questo racconto manca un tassello importante: le luci venivano spente perché il Governo di Washington aveva ordinato di spegnerle facendo anche in modo, a livello locale, che gli ordini venissero eseguiti.

Quelle luci venivano spente anche grazie alla General Electric che per prevenire incidenti durante i blackout aveva inventato luci meno luminose per le macchine. Le luci venivano spente perché qualcuno aveva deciso che andava fatto così, e perché qualcun altro si era quindi occupato di renderlo possibile.

Non sto dicendo che sia sbagliato pensare di poter fare meglio a livello individuale. Migliorare gli acquisti, cambiare stile di vita e tutto il resto. Non sto dicendo che le nostre azioni individuali non servono e quindi chi se ne importa degli alberi, della plastica, dei rifiuti, dei consumi. Ma le nostre azioni individuali non produrranno la soluzione. È rischioso pensare che se tutti noi singoli individui facciamo un po’ di più, stiamo un po’ più attenti, allora creeremo da soli la soluzione. È rischioso pensare che questo possa bastare.

Forse le azioni individuali contano, al contrario di quello che dice Foer, in quanto sono, appunto, sentimenti. Sono utili proprio se restano principalmente sentimenti, senza avere la presunzione di essere loro stesse la soluzione. Perché la soluzione va trovata da un’altra parte. Va ricercata senza trattare tutti i responsabili della crisi climatica nello stesso modo. Bisogna invece identificarli ed agire con azioni collettive, per fare in modo che chi ha più responsabilità, per una volta, se la prenda.

Valeria Belardelli

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