Oggi parliamo di un classico. La cli-fi è parente stretta di tutte quelle opere ispirate all’incubo nucleare degli anni Cinquanta. A dire il vero l’incubo nucleare, come coordinata storica appartenente alla guerra fredda, ha rappresentato un momento importante per riflettere sul non-umano, sugli obiettivi degli esseri umani, sulla possibilità che l’essere umano distruggesse il pianeta. Non che oggi gli armamenti nucleari non facciano paura: Silvia Peppoloni ha scritto mesi fa un articolo sul Trattato sulla proibizione degli ordigni atomici che, se da una parte ci ricorda che gli anni Cinquanta sono finiti, dall’altra solleva la questione delle nazioni che hanno scelto di non aderire al patto per non rinunciare al proprio arsenale, quindi per non fornire un’immagine debole dei propri mezzi di difesa. Equilibri umani che passano avanti in bilancio a equilibri di natura globale.

Uno dei titoli rimasti nell’immaginario collettivo dagli anni Cinquanta è sicuramente On the beach (1957) di Nevil Shute, L’ultima spiaggia in italiano, celebre anche per il traumatico film dal cast stellare di due anni dopo. La trama è nota e, al pari di opere che parlano di attesa e di morte – come ad esempio Il deserto dei tartari di Dino Buzzati – non è necessariamente importante. Non è il mero mettere in scena la gente per bene di Melbourne in attesa della nube nucleare assassina a terminare un’estinzione di massa che mette inquietudine. No, Shute va oltre – per questo il suo libro ha ancora molto da dire. Quello che davvero mostra è un disastro antropogenico scaturito da interessi bellici e sfuggito di mano, le cui conseguenze mortifere sono diventate irreversibili. Suona familiare, vero, questo incubo d’ansia?

Nevil Shute Norway era, prima di ogni altra cosa, un serio ingegnere, tanto serio da firmare i suoi romanzi senza il Norway perché non si dubitasse sul posto di lavoro della sua serietà (quanto fa anni Cinquanta tutto questo!). Ai libri consegnava la sua curiosità nei confronti dell’abilità di fronteggiare le avversità e rapportarsi alla tecnica degli esseri umani. L’ultima spiaggia non è certo una lettura estiva edificante. Tuttavia credo che la sua attualità stia da una parte nel mettere in dubbio la capacità degli umani di gestire le situazioni pericolose che creano (ne avevamo parlato a proposito di John Wyndham, sarà un tratto tipico della fantascienza britannica new wave) dall’altra aver tratteggiato interessanti profili psicologici. Le persone comuni di Melbourne somigliano a malati terminali che fanno esperienza della fine del mondo affrontando l’inevitabile ognuno alla sua maniera. Profili differenziati ma comunque abbastanza accomunati dal desiderio di illudersi che non è vero che tutto sta per morire.

Questo molti decenni prima che Timothy Morton parlasse di iperoggetti – come il riscaldamento globale o il plutonio radioattivo – e di come il loro essere distribuiti in maniera massiva nello spazio renda praticamente impossibile la loro percezione globale da parte degli esseri umani. I personaggi dell’Ultima spiaggia sono consci di cosa sta succedendo. Molti di loro però continuano a comportarsi come hanno sempre fatto, quasi negando il fatto che non ci sarà un futuro. E lo fanno perché il loro modo di percepire il mondo è rimasto lo stesso: le bombe sono scoppiate lontano, il pericolo non è davvero stato recepito dai loro sensi.

Thomas Eliot aveva già da tempo scritto The Hollow Men (1925), un componimento poetico che innerva L’ultima spiaggia. L’espressione On the beach (“Gathered on this beach of the tumid river”) viene in parte da questa suggestione post-bellica, questa immagine di uomini vuoti, come intrappolati in un limbo dantesco, incapaci di agire e con la sola possibilità di attendere la morte. A seguito della pubblicazione del libro di Shute, fu chiesto a T.S. Eliot se nel presente (1958) avrebbe riscritto versi come This is the way the world ends / not with a bang but with a whimper (“Così il mondo finisce, non con un’esplosione ma con un gemito”). Eliot disse di no, argomentando che i lettori li avrebbero sicuramente legati alla bomba H quando invece il suo punto era esistenziale. In realtà lo era anche il discorso di Shute, pur usufruendo della bomba.

La minaccia nucleare, in letteratura, precede la cli-fi perché è spesso spunto per riflettere su come gli interessi legati agli equilibri socio-politici della società che hanno portato a sganciare la bomba non hanno calcolato la vivibilità del pianeta. L’economia di crescita e consumo che oggi vincola claustrofobicamente il mondo globalizzato non porta certo danni immediati come Hiroshima; tuttavia il risultato finale del non affrontare di petto il cambiamento climatico, frenati da interessi ed equilibri socio-economici, potrebbe essere altrettanto disastroso.

Pensiamo il disastro nel futuro prossimo – chi lo pensa – ma di fatto è già qui.
Si manifesta nelle alluvioni in Germania, nella facilità inedita con cui brucia la legna dei boschi in condizioni di particolare secchezza (in Australia come in Oregon) nella presenza di cicloni dove mai sono stati prima (Gati in Somalia), nelle temperature a cui si stenta a credere (il caldo anomalo in British Columbia). Lo vediamo insomma in ogni manifestazione climatica estrema e inusuale prima annunciata e poi puntualmente accaduta: ci perdiamo in passi sempre troppo piccoli mentre il disastro globale avanza. Ed è chiaro quanto la nostra mentalità non abbia compreso del tutto il problema in ogni occasione in cui si dà la colpa a inefficienze o a tecnologie non all’altezza delle circostanze allarmanti che capitano quando prima di arrivare a quel punto avrebbero dovuto esserci provvedimenti preventivi lasciati per troppo tempo in secondo piano. È una questione di priorità: mettere una toppa a favore di PIL al presente o lavorare per un futuro davvero resiliente? Il tempo per uscire da questo cul-de-sac e salvarci dal disastro non è piu molto. Come un conflitto nucleare, il cambiamento climatico potrebbe davvero rendere invivibile la Terra, ed è decisamente più lento e meno evidente di un ordigno, ma è in corso.

L’Ultima spiaggia – film e libro – ha traumatizzato molti negli anni Cinquanta per il modo realistico con cui vengono descritti gli abitanti di Melbourne che aspettano il disastro mortale. Siamo noi, quelli.

Condividi: