Nel 2014 esce il documentario di Wim Wenders e del figlio del grande fotografo, Juliano Ribeiro Salgado, Il sale della terra:

Io lo vedrò nel 2018, grazie all’incontro con la psicoterapeuta cognitivo-evoluzionista Giusy Mantione, attivista antispecista. Vengo travolta da questa visione e, con Mantione, curo il libro Il corpo della Terra. Una relazione negata, nelle librerie dal 2019. Un volume che diventa il punto di partenza di un movimento trasversale di intellettualə, scienziatə, artistə, giornalistə, blogger e opinion leader impegnatə a sensibilizzare la collettività italiana sul rischio di un cambiamento irreversibile dell’ecosistema globale. Esperti di varie discipline riflettono sulle responsabilità che abbiamo in quanto “custodi della terra”, forti di una consapevolezza che proviene dall’antica sapienza dei nativi americani: «Noi non ereditiamo la terra dai nostri genitori, la prendiamo in prestito dai nostri figli».

La distruzione del pianeta da parte degli esseri umani è un agito autolesivo mosso da pulsioni narcisistiche e onnipotenti – mi spolmono ad ogni intervista – riguarda il dramma di una relazione negata, quella che fisiologicamente lega l’essere umano al suo ambiente naturale, un grembo che lo precede. Il corpo della terra mira a ricomporre questa devastante frattura, integrando le visioni egologiche con quelle ecologiche, per poter costruire un nuovo immaginario sulla nostra identità e sulla nostra appartenenza. Da qui nascerà – un anno dopo – ReWriters, Associazione di cui Mantione è socia.

Un lungo preambolo per contestualizzare l’emozione che mi ha dato vedere questa mostra al Museo MAXXI di Roma (unica tappa italiana), a cura di Lélia Wanick Salgado, compagna del Maestro, che resterà aperta fino al 13 febbraio 2022.
Per cominciare, forse non tuttə sanno che Salgado arriva al progetto Amazônia sì dopo Genesi, dedicato alle regioni più remote del pianeta per testimoniarne la maestosa bellezza, ma soprattutto dopo vari lavori molto drammatici (cito a memoria Sahel: The End of the Road, sulle terribili condizioni dei popoli africani, e Workers, sui lavoratori calpestati in giro per il mondo).

Amazônia, come Genesi, appartiene all’operazione di riparazione dopo la depressione dovuta a ciò che l’artista aveva visto viaggiando alle periferie della Terra, incontrando le ingiustizie, la spietatezza umana, la nostra ferocia, la compulsione predatoria, l’egoismo, la distruttività. Non a caso, Il sale della terra, si conclude con il progetto che Salgado porta avanti assieme alla moglie per la riforestazione della Mata Atlantica.

Questa mostra, che vanta un allestimento di grande impatto emotivo, ha per soggetto la più grande foresta pluviale del pianeta, famosa per la sua biodiversità, e i popoli che la abitano. La foresta dell’Amazzonia occupa un terzo del continente sudamericano, un’area più estesa dell’intera Unione Europea. Tra luce (le foto) e ombra (le sale), il percorso è struggente anche per chi non si è posto domande sullo stato dell’arte del rapporto tra essere umano e pianeta: “Questa mostra – ha detto Salgado – è il frutto di sette anni di vissuto umano e di spedizioni fotografiche compiute via terra, acqua e aria. Sin dal momento della sua ideazione, con Amazônia volevo ricreare un ambiente in cui il visitatore si sentisse avvolto dalla foresta e potesse immergersi sia nella sua vegetazione rigogliosa sia nella quotidianità delle popolazioni native. Queste immagini vogliono essere la testimonianza di ciò che resta di questo patrimonio immenso, che rischia di scomparire. Affinché la vita e la natura possano sottrarsi a ulteriori episodi di distruzione e depredazione, spetta a ogni singolo essere umano del pianeta prendere parte alla sua tutela”.

Dopo una vita trascorsa a realizzare reportage di impianto umanitario e sociale, Salgado si è dedicato a una nuova serie di viaggi durati 6 anni per catturare l’incredibile ricchezza e varietà della foresta amazzonica brasiliana e i modi di vita dei suoi popoli, stabilendosi nei loro villaggi per settimane e fotografando i diversi gruppi etnici. Il lavoro che ne è venuto fuori, appunto Amazônia, è increbibilmente espressivo: dalle grandi foto in bianco e nero che penzolano nel vuoto, illiminate come i film al cinema, espolde la potenza naturale, come se radici, fiumi, montagne, cascate fossero un corpo, il corpo della terra, e quei popoli, nudi, con bende, corde, scarificazioni, la sua saggezza, una coscienza intrinseca e primaria.

Eppure, in questa potente potenza, anche la sua grande fragilità, ecosistema perfetto ma a rischio di una insensata depredazione umana: attirando l’attenzione sulla bellezza incomparabile di questa regione, Salgado vuole accendere i riflettori sulla necessità e l’urgenza di proteggerla insieme ai suoi abitanti. Tutta l’umanità ha la responsabilità di occuparsi di questa risorsa universale, polmone verde del mondo, e dei suoi custodi.

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