Fin dal Medioevo, le famiglie di una certa importanza, e con un certo patrimonio da gestire, imponevano la monacazione alle proprie figlie per salvaguardare non solo la propria eredità, ma anche per evitare le spese per la dote di un ennesimo matrimonio. Il fenomeno della monacazione forzata, di cui tutte abbiamo avuto un esempio nella sventurata vicenda della Gertrude di Manzoni o in Storia di una capinera di Verga, fu uno dei molti strumenti di coercizione patriarcale al quale le più giovani furono costrette a sottomettersi.

Il Concilio di Trento tuttavia cercò di mettere un freno al fenomeno verificando la fede della fanciulla e le sue reali intenzioni. Ovviamente, questo sulla carta, altra fu la realtà che non rispecchiò fedelmente i suoi dettami. 

Monacazione forzata: la scrittura conventuale

La pratica della scrittura conventuale è sicuramente uno dei fenomeni più pervasivi, consistenti e costanti della storia letteraria italiana. I monasteri potevano rivelarsi un rifugio o un inferno: da una parte dava la possibilità di essere altro, di rispondere a uno sposo non reale e, in un certo senso, di essere autonome e risparmiarsi le esperienze traumatiche del sesso, del parto e della violenza domestica. Dall’altra, quando la scelta diventava invece forzata, poteva rivelarsi l’inferno in terra: in tali contesti ecco che la scrittura si apre alla resistenza e alla denuncia. Arcangela Tarabotti, al secolo Elena Cassandra, dallo studiolo della sua cella, ci ha lasciato una critica straordinaria, in più libri, del patriarcato e dei suoi strumenti di coercizione.

Tanto la femmina, quanto il maschio, nacquero liberi, portando seco, come doni preziosi di Dio, l’inestimabile tesoro del libero arbitrio. La donna non è pertanto di minor stima di voi, se non perché tale l’avete ridotta ad essere con le vostre superbe stratageme.

Sono gli anni venti del Seicento e per Tarabotti, prima di sette figlie e zoppa, inizia la condanna ai voti forzati quand’era poco più che una bambina, presso il monastero benedettino di Sant’Anna in Castello, nella laguna di Venezia. L’Inferno monacale è l’opera più conosciuta della scrittrice, che lei stessa non volle fosse data alle stampe ma che tenne per sé in monastero. Il libro, insieme al Purgatorio delle malmaritate, dedicato alla questione delle donne infelicemente sposate, e al Paradiso monacale, avrebbe dovuto formare una trilogia degli inferni al femminile su modello della Commedia dantesca.

“L’inferno monacale”. La condanna ad una sofferenza infinita

L’Inferno monacale, diviso in tre libri, si apre proprio con la celebre scritta che Dante immagina di vedere all’ingresso degli inferi: 

Per me si va nella città dolente, per me si va nell’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente.

Paragonando il chiostro a un mondo infernale, Tarabotti si augurava che la scritta dantesca potesse essere ben visibile all’ingresso dei monasteri per avvertire le novizie di ciò che le avrebbe aspettate. La vita monacale, quando imposta, è per la scrittrice una palude infernale alla quale ci si arriva traghettate dalle barche dei propri padri. Come Caronte, infatti, questi trascinano e condannano le proprie figlie ad una sofferenza infinita.

La critica della Tarabotti non è, però, una critica alla Chiesa o al clero quanto alla Ragion di Stato, e implicitamente anche alle regolamentazioni della Repubblica veneziana che incentivava la pratica della monacazione forzata per preservare la classe nobile e, ovviamente, anche la ricchezza che apportava alle casse dello stato. Con un’attenta analisi che oggi si definirebbe economico-sociale, il nodo della questione risiede per la scrittrice nei meccanismi che permettono la mercificazione della prole, e delle figlie femmine in particolare. 

[…] quelli che per sola avarizia e ambizione dedicano, prima che nate, le loro innocentissime viscere all’inferno de’ viventi, perché tali sono i chiostri religiosi alle monache sforzate.

Al pater veniva affidato il potere decisionale sulle vite altrui, tra cui quello di legare per sempre le sue figlie ad uno sposo che non avevano scelto, sia esso terreno o celeste poco importava. Questa sferrante critica alla cultura patriarcale è incastonata nella sua ultima fatica, la Tirannia paterna, che l’autrice cercherà di pubblicare negli ultimi mesi del 1650, ma che uscirà postuma e verrà successivamente inclusa nell’Indice dei libri proibiti circa dieci anni dopo la morte della scrittrice, avvenuta il 28 febbraio 1652 a soli 48 anni. 

Morale della storia? Banale ed essenziale allo stesso tempo: le donne, oggi come allora, che hanno parlato, scritto o agito contro il patriarcato, hanno denunciato una sovrastruttura a più piani (culturale, antropologica ed economica) che innesca, dalla notte dei tempi, quel meccanismo letale di violenza e normalizzazione che ci costringe, come Penelope, a non stancarci di rifare e disfare la nostra tela contro la sua forza.

University of Chicago Press

Clara Stella è una ricercatrice in letteratura italiana presso la Universidad de Sevilla. Si interessa di autrici del Cinquecento, di modelli di santità e della storia culturale della misoginia. E’ cofondatrice dell’associazione Uniche ma plurali.

Condividi: