Che fanno le aziende per l’ambiente? Bilancio di sostenibilità e greenwashing
Mentre la siccità colpisce l'Italia tornano i dubbi sulla relazione tra persona e ambiente. Le aziende che fanno? Cerchiamo il bilancio di sostenibilità.
Mentre la siccità colpisce l'Italia tornano i dubbi sulla relazione tra persona e ambiente. Le aziende che fanno? Cerchiamo il bilancio di sostenibilità.
Maggio, giugno e luglio 2022 saranno ricordati in molti modi: sicuramente per aver ospitato delle ondate di calore di eccezionale durata e rilevanza termica in tutto il nostro Paese e probabilmente, a detta di alcuni, per essere l’ultima stagione mite tra quelle che verranno.
D’improvviso, ci siamo trovati a porci vecchie (ma non dimenticate) domande: ha senso tenere aperte le porte dei negozi con l’aria condizionata a livello Antartide? (spoiler: no!) Fino a quanto può salire la temperatura in officina prima che un dipendente possa considerarsi esonerato dal lavoro? Perché in città fa più caldo che in periferia?
Perché in media il 40% delle risorse idriche viene sprecato in tubature fatiscenti? Quanto bisogna litigare prima di accordarsi sulla temperatura dell’aria condizionata in ufficio? Chi paga per le mancate produzioni dovute ad eventi atmosferici estremi? Cosa significano gli stati di emergenza e calamità naturale per le Regioni? Le aziende, come possono contribuire? Per quest’ultima domanda, una risposta può essere il bilancio di sostenibilità.
A differenza del bilancio di esercizio, il documento contabile che fornisce la rappresentazione patrimoniale e finanziaria di un’azienda o impresa e che quindi è obbligatorio per tutti, il bilancio di sostenibilità può non essere compilato da gran parte delle aziende italiane.
Il Decreto Legislativo. n.254/2016 ha reso obbligatoria la redazione e la pubblicazione del bilancio di sostenibilità per enti di interesse pubblico (società o holding di gruppo quotate in borsa), banche, assicurazioni e imprese di riassicurazione con un numero di dipendenti superiore a 500 e uno dei seguenti requisiti:
– 20 milioni di euro come totale attivo dello stato patrimoniale;
– 40 milioni di euro come totale dei ricavi netti delle vendite e delle prestazioni;
– società madri di gruppi di grandi dimensioni aventi la qualifica di Enti di Interesse Pubblico, che hanno superato gli stessi limiti dimensionali previsti per gli EIP.
All’interno del documento, le aziende sono chiamate ad affrontare:
– temi ambientali, come l’impiego di risorse idriche, energetiche (con specifica se da fonti rinnovabili o meno), emissioni inquinanti.
– Temi sociali: impatto che l’attività produttiva può avere sulla salute e la sicurezza dei dipendenti e cittadini dell’area geografica circostante.
– Impegno nel rispetto dei diritti umani e personali: politiche interne di parità di genere e di ascolto del personale, attività nel rispetto dei diritti umani.
– Lotta alla corruzione, attiva e passiva.
Il termine greenwashing è diventato molto comune negli ultimi tempi. Lo usano apertamente contro imprese e grandi gruppi industriali Greta Thunberg e i Fridays for Future, così come molti altri enti e organizzazioni ecologiste.
Lo hanno addirittura gridato dal palco del Festival di Sanremo 2022 durante la loro esibizione La Rappresentante di Lista con Cosmo, Margherita Vicario e Ginevra, fortemente critici con le presunte politiche ambientali del main sponsor della manifestazione.
Si tratta di un neologismo inglese originario degli anni Settanta, che può essere tradotto come ecologismo o ambientalismo di facciata e che indica il racconto a scopo pubblicitario di un proprio per impegno nel ridurre l’impatto ambientale da parte di alcune aziende o imprese, principalmente nel tentativo di distogliere l’attenzione dagli effetti negativi per l’ambiente generati dalle proprie attività e/o prodotti. Come i marchi del fast fashion che utilizzano termini ecologici per alcune linee di prodotto, ad esempio.
Di contro però, esistono anche storie di aziende virtuose, che investono parti più o meno cospicue dei propri utili per favorire la transizione ecologica. Ce ne sono sparse ovunque anche in Italia, da piccole startup a realtà di medie o grandi dimensioni, che si impegnano attivamente per produrre un valore maggiore di quello che assorbono. Credevo che questi esempi virtuosi fossero raccolti in un archivio comune, da qualche parte.
Invece no. O per lo meno, non esiste uno strumento, aggiornato e oggettivo come lo immaginavo. Le aziende che lo redigono, lo pubblicano sul proprio sito web, certo. Alcune ricerche ne raggruppano alcuni elaborando dei modelli di cambiamento, ma tante volte leggendo oltre al titolo ci si trova di fronte a dati parziali, arretrati, spesso commissionati o sponsorizzati da grossi gruppi tacciati, appunto, di greenwashing.
Una conferma che arriva anche dal report di ConsumerLab Sostenibilità alla sbarra: non è aggiornatissimo, i dati sono relativi al monitoraggio di 2.500 aziende nel 2021, ed erano stati raccolti e pubblicati in tempo per l’edizione del Congresso Nazionale Future Respect che si è tenuta dal 28 al 30 aprile 2022 a Roma.
Tra i tanti, questo report mi ha subito conquistata per la brutale sincerità:
Con un modello specificatamente elaborato abbiamo riscontrato l’evoluzione, i progressi di miglioramento espressi in un cluster qualificato di Bilanci di Sostenibilità: una conferma che l’impegno per la trasformazione sostenibile è blando e stressato dal marketing.
ConsumerLab, Sostenibilità alla sbarra
Tutto greenwashing, insomma. O quasi. I dati a supporto di questa affermazione, forniti già nell’introduzione, sono lapidari e anticipano quello che poi si può approfondire nelle successive quasi cinquanta pagine:
Il rapporto tra i bilanci di sostenibilità pubblicati e le imprese con più di 20 addetti risulta pari all’1,76%; il rapporto dei bilanci di sostenibilità pubblicati e le imprese con più di 10 addetti risulta pari allo 0,63%.
ConsumerLab, Sostenibilità alla sbarra
Insomma: se non è obbligatorio, non viene preso in considerazione dalle piccole e medie imprese italiane. Quelle che rappresentano la maggioranza del nostro sistema industriale.
Inutile promettere di non lavorare più per aziende poco green, oppure di non acquistare i loro prodotti: sappiamo che non è possibile. Non in questo momento. Non per tutti i settori. Questo dovrebbe renderci complici di un sistema immutabile?
Forse, oppure no. Nel nostro piccolo, possiamo rendere questi temi sempre più stringenti per le amministrazioni locali, far pressione in modo che la transizione ecologica venga finalmente inserita nell’agenda del prossimo Governo. Il 25 settembre ci saranno le elezioni politiche: quale miglior momento per sottolineare l’urgenza di riformare il sistema produttivo e industriale italiano, così da aiutare la transizione ecologica?
Per avere le idee più chiare possiamo cominciare ad informarci, partendo dal report di ConsumerLab, che si può scaricare qui!