Happier Than Ever è il titolo del secondo album di Billie Eilish, dopo il debutto nel grande formato pubblicato nel 2019, pluridecorato. Allora aveva 17 anni, ora ne ha 19: è stata travolta dal successo, con tutto quello che può comportare e che non è facile da gestire, a maggior ragione a quell’età, per la pressione, le attenzioni morbose, i complimenti, le critiche. Superata quota 65 milioni di dischi venduti, considerati i numeri mostruosi di streaming a pochi giorni dalla pubblicazione della nuova opera, c’è da avere paura!

Billie Eilish ha atteso spasmodicamente l’uscita di Happier Than Ever, nelle interviste ha ribadito che non sarebbe (artisticamente) quella che è senza Finneas, specificando – con un sottile ghigno – che lui da solo non riuscirebbe a realizzare ciò che realizzano lavorando insieme. Hanno fatto tutto da soli, tranne missaggio e mastering: lei soprattutto testi e arrangiamenti vocali. Sono usciti dalla cameretta: adesso c’è lo studio casalingo di Finneas… se lo possono strapermettere! I discorsi sulla salute mentale restano centrali nei testi: la vita, dopo un ciclone, i rapporti con l’esterno, le pressioni della discografia, il corpo, il sesso, il potere. Everybody Dies, secondo me, piacerebbe molto a Silvio Berlusconi, non per il titolo (giammai!), ma per quello che dice sulla possibilità di “vita eterna”. Un’opera può servire ad esorcizzare, attraverso la scrittura, fantasmi e dolori. L’arte è piena di storie così!

Il riff del basso sintetico di Bad Guy, la voce distorta, la produzione realizzata col fratello Finneas nella cameretta, l’imperfezione perfettamente voluta di quel low fi, hanno colpito duro, con enorme successo, e fissato uno standard (qualitativo e creativo) difficile da superare.
La marcia di avvicinamento a questo seguito sfidante è stata lunga: ben cinque singoli lo hanno preceduto nel corso degli ultimi 12 mesi, c’è di mezzo la crescita, la reazione al successo e alla straordinaria visibilità che ha provocato. Al body shaming ha reagito con forza. Poi è giunta la rivelazione del corpo, che prima Billie Eilish copriva con un multistrato oversize e che adesso ha svelato, non necessariamente con risvolti sessuali, dalla cover e dal servizio fotografico di Vogue in poi, negli ultimi video. Sembra contenta e consapevole di essere quello che è: ha cambiato colori, capelli, forme. Il parlato di Not My Responsability è esemplare.

Cerco di essere distaccato, ma questo è proprio un gran disco, 16 brani, un’ora circa, da ascoltare preferibilmente in cuffia (di buona qualità), nei dettagli, negli ambienti. La voce di Billie, un canto intimo, penetra il cervello, sin dal primo brano, Getting Older, sorta di confessione. In tre o quattro brani affiorano i possibili riferimenti alle grandi voci (Frank Sinatra, Julie London, Peggy Lee) cui dice di essersi ispirata.
Happier Than Ever è il manifesto di una diciannovenne, talentuosissima e di gran successo. Title-track potente, con un finalone corale, volutamente superdistorto. Dal 3 settembre un film-concerto su Disney+, in tour da febbraio del prossimo anno. Felicità.

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