Ecco: ho appena finito di guardare la seconda stagione e il mondo di Bridgerton già mi manca. Mi manca nonostante mi diano fastidio gli anacronismi e le incongruenze nella narrazione di un’epoca che mi appassiona (nessuna signora perbene, per quanto eccentrica, nel 1813 sarebbe andata a cavalcioni invece che all’amazzone con un paio di fuseaux bianchi sotto le gonne, neppure all’alba in un parco credendo di essere sola. Per dire).

Non è un caso che Bridgerton, produzione della casa americana Shondaland di Shonda Rhimes, creata da Chris Van Dusen, abbia sfondato i record d’ascolto di Netflix. La sceneggiatrice nera, a proposito di Re-writers, si ispira ai romanzi di Julia Quinn e, a proposito di Re-writers, ri-scrive il mondo della reggenza (quel lasso di tempo delle guerre napoleoniche in cui la Gran Bretagna era appunto governata da un reggente).

E’ un mondo che infiamma i e le fan di film e telefilm variamente ispirati a Jane Austen (seppure i romanzi della grandissima scrittrice inglese, non si occupino della corte né dei nobili londinesi né di storielle leggere)  e in Bridgerton è sfruttata fino allo spasimo, seguendo semmai le tracce di una grande esperta del genere rosa storico come Georgette Heyer: morta nel 1974, scrisse decine di bestseller del genere, ma con una ricostruzione ambientale meticolosa.

Questo invece è un mondo regency fantasy, la cui caratteristica fantasiosa primaria è che in Bridgerton la presenza di una regina nera ha aperto la via della nobiltà a numerose persone di colore.

La prima stagione tracciava la storia d’amore fra la primogenita dei ricchi Bridgerton, Daphne (Phoebe Dynevor), e il nero duca di Hastings (Regé-Jean Page, ormai lanciato nell’empireo dei divi, e infatti nella seconda stagione non compare).

Questo secondo anno si occupa di Anthony,  visconte di Bridgerton (Jonathan Bailey), fratello maggiore di Daphne, e delle sue vicende sentimentali con le sorelle Sharma appena sbarcate dall’India (Kate, Simone Ashley, e Edwina, Charithra Chandran), la cui splendida pelle ambrata non provoca ondate di razzismo; i loro spettacolari vestiti stile impero con stoffe di seta da sari invece provocano ondate d’invidia, anche negli spettatori.

Torna la giovane Eloise Bridgerton (Claudia Jessie), protofemminista che vuole più di un marito, e torna l’amica Penelope (Nicola Coughlan), che fa impazzire il ton, la buona società, regina inclusa, stampando pamphlet di gossip sotto il nome di Lady Whistledown (un po’ come dire la spiona) e guadagnando un bel po’ di soldi nell’impresa (i pamphlet sono letti da una voce di donna matura, e nella versione originale è Julie Andrews, enjoy).

Siamo nel 1813 a Londra, in teoria. Nella realtà storica, ci fu una regina nera.
Sophia Carlotta di Meclemburgo-Strelitz aveva antenati africani e sposò nel 1761 re Giorgio III, che poi, come si vede nella serie, impazzì; ma Bridgerton elimina il figlio Giorgio IV che invece in quegli anni di reggenza era effettivamente alla guida dell’impero. Shonda Rhimes peraltro ha già varato anche uno spin-off dedicato alla gioventù della regina Charlotte.

Tutto il resto è fantasia

Le improbabili libertà che si prendono le signorine. I balli meravigliosi che miscelano Mozart alle canzoni rivisitate di Madonna e Miley Cyrus. L’uso spasmodico del valzer, un po’ in anticipo sui tempi. La tensione sensuale fra i begli innamorati che porta a scene soft porn di risplendente fattura; secondo diverse recensioni che ho letto, c’è meno sesso che nella prima stagione, ma quanto a eros non si scherza.

E siccome i Bridgerton sono tutti di notevole bellezza e ce ne sono almeno altri tre in età di matrimonio (il pittore Anthony – mio preferito –  il terzogenito Colin, la ribelle Eloise; gli altri due sono ancora adolescenti), c’è materiale per abbondanti storie e abbondanti scene d’amore in altre stagioni: in cantiere ce ne sono già due.

Serie programmaticamente inclusiva (c’è anche il rifiuto del body-shaming con Penelope), Bridgerton si fa notare anche perché in questo universo fantastico le donne sono protagoniste: modiste, modelle, una regina (Golda Rosheuvel), due madri di famiglia (lady Violet Bridgerton, Ruth Gemmell, e Lady Portia Featherington, Polly Walker) e una vedova (Lady Danbury, Adjoa Andoh) dai caratteri imperiosi, e tutta una trama di sorelle, amiche, conoscenti, alleate, rivali che disegnano un mondo al femminile di cui gli uomini restano per lo più all’oscuro, nonostante detengano il potere economico e decisionale effettivo; la rete delle donne opera trasversalmente e spesso con successo.

Dunque guardate Bridgerton per svagarvi in questi tempi tremendi. Guardatela per immergervi nei colori e nella passione. Guardatela anche se l’ultima puntata è un po’ troppo affrettata rispetto al resto, con l’urgenza di chiudere troppi fili in sospeso.

Ma guardatela soprattutto perché l’operazione di Shonda Rhimes – incarnare un’epoca storica frequentatissima per ri-scriverla in chiave inclusiva – può sembrare solo una favoletta ed è invece tutt’altro che banale: riesce a dare voce a pulsioni e istanze che erano forse presenti, e a cui la storia raccontata dai dominanti non ha lasciato spazio.

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