“Sii sempre docile e buona, e vedrai che sarai ricompensata”. Con le ultime parole di una madre in punto di morte a sua figlia, inizia una delle storie più famose di tutti i tempi: Cenerentola. Una fanciulla tanto bella, che di fronte alle prove che la vita le pone, decide di affrontarle con la strategia apparentemente meno vincente di tutte: la bontà

Anche in questa fiaba, come in quella de La bella e la bestia, emerge il luogo comune secondo cui la troppa gentilezza d’animo finisce per confondersi con la stupidità. Non voglio però soffermarmi di nuovo su questo, quanto piuttosto sul coraggio di una persona che decide di avere come criterio di vita la gentilezza, a costo di diventare cenere per il mondo. Questa fiaba non è cruenta solo per le infinite versioni che la rappresentano, con scene di piedi mozzati e teste di matrigne tagliate, ma è cruenta per la verità che essa rivela: esistono anime, nascoste dal rumore del mondo, la cui bontà spesso le rende invisibili. Diventano cenere che infastidisce la vista. 

Innanzitutto, è bene precisare che le versioni di questa fiaba sono infinite. Solo in Occidente ne abbiamo tre: una di Giambattista Basile, una dei fratelli Grimm e poi la più celebre, meno cruda delle altre due, quella di Charles Perrault. Leggendole tutte e tre mi son convinta che la più bella, nonostante non siano presenti zucche, fate madrine e topolini, sia quella dei fratelli Grimm. Nessuno come i celebri fratelli ha saputo mostrare in maniera tanto umana la virtù della bontà, rendendo Cenerentola non una ragazza ingenua, ma una donna coraggiosa

La bontà, infatti, sebbene sia una virtù innata in Cenerentola, è custodita e alimentata nella relazione d’amore che muove tutta la storia: quella tra la protagonista e sua madre. Questo rapporto non si esaurisce in un semplice ricordo degli insegnamenti dati dalla madre in punto di morte. Esso rimane potente e agente anche dopo la morte di questa. 

La storia parla di tre prove che la giovane donna deve affrontare. La prima prova, la più grande, è la morte della madre: tale è il dolore, che ogni giorno che passa si ritrova a piangere sulla sua tomba. La seconda prova è l’arrivo della matrigna e delle sue figlie. Qui la ragazza viene privata della sua identità di figlia, per assumere quella di serva. Niente è più adatto a definirla se non la cenere con cui condivide il sonno: da lì, il nome Cenerentola. La terza prova è il ballo. Tutte le ragazze del Regno sono invitate. A Cenerentola viene negato il permesso. La sua presenza sarebbe vergognosa per le sorelle. 

La Cenerentola dei Grimm però, non si piange addosso, non attende l’aiuto. Corre a cercarlo lei stessa alla tomba della madre. Più volte nella storia la fanciulla porta a lei le sue lacrime e le sue richieste. Queste vengono sempre esaudite dall’uccellino che abita sul nocciolo accanto alla tomba. Anche la sera del ballo, Cenerentola chiede un vestito a sua madre, colei che più di ogni altro desidera tirar fuori la sua vera bellezza. È accontentata: gli stracci con cui è guardata dalla matrigna, lasciano il posto a un abito tutto d’oro e d’argento, simbolo dello sguardo regale che solo sua madre riesce a donarle. Da serva è tornata figlia: Cenerentola non c’è più. 

Beata da questo amore materno, la ragazza va al ballo sicura di sé, certa di essere amata. È nella sua identità più vera. Il vestito è preparato per lei, le scarpe pure. Per questo nessuno al di fuori di lei le riesce a mettere. L’identità di qualcuno non può essere indossata da altri. La matrigna e le sorelle non la riconoscono, ma la fanciulla non è sorpresa: non si riconosce qualcuno che non si è mai visto. Tutta la sala guarda la ragazza nel suo grande splendore, nessuno indossa abiti e portamento pari al suo. È diventata una principessa. Figlia di uno sguardo materno capace di rendere colei che è cenere indegna per il mondo, vita degna di un Regno. 

Il principe, infatti, la sceglie tra tutte, e non si dà pace finché non trova colei che sola può indossare le vesti da sposa, avendo già indossato, in quelle tre notti di festa, quelle di amata.

La bellezza sempre eterna di questa fiaba, è racchiusa nella forza di questa piccola donna che, anche se viene considerata un nulla, decide di guardarsi con gli occhi regali di sua madre e di lasciarsi guidare dalla più nobile delle virtù: la gentilezza. Cenerentola accetta di stare dentro la vita che ha davanti, ma non per questo ne è succube. Sua madre la aiuta a ritrovare e tener salda la sua identità. Si tratta, infatti, di qualcosa che è da ricercare sempre in colui o colei che amiamo, nel quale appunto, ci identifichiamo. L’identità non è dunque un oggetto da conquistare ma una relazione da ritrovare. Cenerentola conduce una vita da serva ma rimane figlia, non s’identifica con la cenere dei suoi vestiti, anche quando il mondo attorno a lei lo fa. Il suo coraggio viene da una fiducia cieca nell’esistenza di qualcuno che la ama e che interviene per darle forza quando lei non ne ha più, per amarla quando lei non si ama più. Non vive nel ricordo della madre, ma in una relazione viva e agente con lei. 

Un ricordo non ci basta per avere coraggio nella vita. Un ideale nemmeno. Serve una relazione viva, con qualcuno che ci libera dagli occhi inceneritori del mondo, offrendoci i suoi. Chi ci restituisce la nostra identità non ci libera da noi stessi ma ci fa ritrovare noi stessi nel suo sguardo di amore. Non trasformiamoci, dunque, in qualcuno di meglio, ma diventiamo la nostra verità. Se siamo consapevoli di ciò, non saremo mai servi del presente ma persone libere.

(Illustrazione di Hermine de Clauzade)

Versione della fiaba consigliata: J. e W. Grimm, Cenerentola, in Fiabe, trad. it. C. Bovero, Einaudi, 2015.

Versione celebre della fiaba, da cui deriva l’originale Disney (1950): C. Perrault, Cenerentola, trad. it. Carlo Collodi, illustrazioni di R. Innocenti, la Margherita edizioni, 2007.

Film consigliassimo (riprende entrambe le versioni): Cenerentola (2015), regia di Kenneth Branagh.

Condividi: