Che Facebook non sia più quel luogo rilassante per fare due chiacchiere che era una decina di anni fa oramai è noto. Se c’è una cosa che ci ha insegnato è che le chiacchiere da bar per iscritto prendono tutto un altro peso. L’utente X ad esempio, con il solito sarcasmo purtroppo ancora di moda, si affretta a commentare l’arrivo del promontorio subtropicale Lucifero con le parole: “Siamo in estate, fa caldo, che strano!”. E avrebbe anche ragione se non fosse che i siracusani e i floridiani potrebbero obiettare che 50 gradi non ne avevano mai avuti (dati, rete SIAS). 50 gradi. Il primo livello della manopola del forno per pizze.

Un altro utente, stavolta un sedicente libero pensatore, mette in discussione l’antropogenia del cambiamento climatico sostanzialmente perché è un’idea condivisa – anzi dogmatica, dice lui – passando sopra non solo a tutti gli studi da Keeling in poi ma anche a tutti gli anni di battaglie per farsi ascoltare. C’è stato un tempo in cui il mondo scientifico non era certo unanime a proposito di questo dogma. E, dato che un dogma è di per sé un assioma religioso indiscutibile, già sapere che è stato ampiamente discusso e sono occorsi sessant’anni per fare fronte comune dovrebbe far evitare la scelta di certe parole. La scienza, del resto, si fonda sulla ripetizione dell’esperienza nel mondo fisico – non su un credo.

Com’è che diceva il buon vecchio Nanni Moretti nei panni di Michele Apicella in Sogni d’Oro? Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Io non parlo di cose che non conosco!”. Lo capisco molto. Come del resto capisco – e sento – le riflessioni di Marcello di Paola. Discuto chi posta su Facebook perché oltre a utenti – ed elettori/elettrici – costoro sono anche parte di quel gruppo, l’opinione pubblica, al quale la cli-fi cerca (disperatamente) di parlare di futuro.

Gli amici e le amiche dei Fridays for Future intanto scrivono sui loro social, dopo aver letto il desolante ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), che non è ancora tutto perduto se ci diamo una mossa. Il loro post è molto bello e puntuale, come sempre. Il problema è che – stringendo il campo di osservazione solamente all’Italia – qua si oscilla fra l’atteggiamento di chi attende l’apocalisse sulla spiaggia ballando Tropicana yeah perché tanto è convintə di non poter fare nulla e la spavalderia di chi nega l’antropogenia – perché il pensiero che l’essere umano abbia rovinato così tanto la vivibilità del pianeta fa un certo effetto o sembra quasi incredibile.

E la politica che fa?

La politica intanto si comporta come se l’ecologia fosse sempre il problema fra i problemi, come quarant’anni fa, e non si rende conto che il tempo stringe (l’IPCC è stato molto chiaro al riguardo). Il green promesso dal PNRR del resto non è abbastanza, non c’è associazione ambientalista che non lo abbia oramai detto: la priorità al biologico per una vera transizione agroecologica non è contemplata nonostante il salto del settore negli ultimi sei anni; non si interviene su certe filiere altamente impattanti come gli allevamenti intensivi e altre occasioni mancate per salvare posti di lavoro oggi, perdendoli probabilmente domani assieme alla fertilità/vivibilità del territorio. Pianura padana in primis.

Un’opinione pubblica ancora
poco consapevole

In Italia non c’è ancora, nonostante i passi avanti e nonostante gli sforzi di alcune testate in quella direzione (Rewriters ovviamente incluso), un’opinione pubblica conscia di quel che rischia, che spinga dal basso ad azioni politiche mirate. Tanto meno c’è un partito politico di ideologia verde impattante. La nostra situazione attuale somiglia più a quella geniale vignetta di Jak Umbdenstock che rappresenta una no-vax vagamente lepeniana e un pro-vax vagamente macroniano che litigano in mezzo a roghi di boschi e inondazioni.

Bene, dopo questo quadro desolante, il mio consiglio per la lettura sotto l’ombrellone nel forno di Lucifero non può essere che un titolo che ho già nominato spesso: Qualcosa, là fuori, la prima cli-fi italiana edita per il mercato nazionale e scritta da un autore ben noto – Bruno Arpaia – datata 2016. L’autore, è quasi un pioniere in contesto italiano, nonostante il genere sia nato formalmente nel 1977 e il ritardo nella prosa nostrana (coperto da poesia e canzone) indubbiamente c’è. Non che la cli-fi fosse fra gli interessi di Bruno Arpaia in quanto genere letterario. Quando lo intervistai per ragioni accademiche, in tutta onestà mi scrisse:

“Ho scoperto che esisteva la climate fiction mentre scrivevo il libro ed ero quasi alla fine”.

Quello che differenzia invece davvero Bruno Arpaia da molti intellettuali ancora inconsciamente vittime della concezione crociana di superiorità delle humanae litterae sulla scienza, è che, pur essendo uomo di lettere, non ha paura di leggere papers scientifici e rifletterci su. Alla cli-fi ci è arrivato così: leggendo per interesse personale.

E leggendo ha praticamente immaginato e trasportato su carta quella che rischia di essere la condizione fisica dell’Italia e di mezza Europa fra qualche decennio. Devo aver scritto da qualche parte in questo blog che Qualcosa, là fuori pecca un po’ di didascalismo e qua è la mia familiarità con il dibattito filosofico anglosassone che non può fare a meno di chiedersi se il realismo, vincolato ai sensi umani, sia la via più giusta per comunicare un problema sostanzialmente impercettibile se non con strumenti scientifici come il cambiamento climatico. Bruno Arpaia invece parte da un altro punto di vista: narra l’Antropocene futuro esattamente come farebbe con il fascismo o con il ’68 perché, nella sua visione delle cose, è un periodo storico reale, costruito con la fantasia partendo da dati reali, al quale si può applicare l’estetica letteraria tradizionale italiana per narrare ed esplorare la storia umana. Questo rende a tutti gli effetti Bruno Arpaia un autore cerniera fra il realismo sociale italiano e la cli-fi e rende Qualcosa là fuori un libro assolutamente imprescindibile.

Il Livio del passato, il protagonista, è quasi un personaggio da Starnone che, invece di fare l’insegnante alle superiori, ha avuto una brillante carriera come scienziato che gli ha fatto lasciare Napoli per gli Stati Uniti. Il Livio del presente somiglia invece molto più a quei racconti di migrazione attraverso il Sahara: uomini e donne attraverso percorsi durissimi e in balia di guide che speculano sulla loro disperazione. In questo caso è la compagnia Trans Hope che organizza e specula su un viaggio della speranza verso la Scandinavia attraverso un’Europa totalmente modificata dal cambiamento climatico nella quale il porto di Amburgo somiglia in modo inquietante all’odierna Tripoli.

Bruno Arpaia indaga la
non-percezione del rischio

I messaggi chiari sono due: in primis bisogna avere chiaro che lo scenario del libro potrebbe presto essere reale e prendere provvedimenti per scongiurare questa possibilità, in secondo luogo la politica anti-migrazione è inutile. L’homo sapiens è sempre stato migratore e chi verrà dopo di noi (europei) dovrà presto tornare a esserlo se le cose non cambiano. All’autore non interessa tanto indicare un aspetto construens a cui potersi aggrappare dopo la catastrofe, quanto indagare la non-percezione del rischio.

Ecco perché ve lo affido come lettura di Ferragosto. Nonostante Lucifero ci aliti addosso e mastichi l’Italia come ai tempi di Dante faceva con Giuda, Bruto e Cassio, mi sembra che di non-percezione del rischio in giro ce ne sia, purtroppo, molta.

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