E’ morto Cristobal Jodorowsky, per cause sconosciute, a 57 anni. La famiglia ne ha dato l’annuncio alle 21,48 del 15 settembre. Premetto che ogni volta che scompare qualcuno di significativo e vedo la parata social di immagini dove ognuno si pubblica in foto con la buonanima resto quantomeno perplessa.

Sembra sempre che il gesto preferisca oscurare la memoria del compianto a favore di quel fuggevole sorriso, gesto o autografo scambiato. Ma ugualmente ha poco senso parlare di qualcuno che lo ha fatto magistralmente di se stesso nella sua autobiografia Il collare della tigre. Una autobiografia fondamentale se volete capire qualcosa di Cristobal Jodorowsky.

Quel collare che la belva si scrolla, accorgendosi che il limite non esiste se non nella propria incapacità e sfiducia a superarlo è una delle chiavi principali di accesso al suo lavoro: rompere limiti, sfatare credenze, sfondare reti neurologiche stratificate, dalla polvere genealogica e dalla convenzione sociale.

A chi decideva di seguirlo, anche per una piccola porzione di sapere e di esperienza, Cristobal si donava intero, disarmante, esponendo aneddoti e trasformazioni personali costanti, intere, impudiche come la sua esperienza di coma da overdose o di pelle del viso che cadeva come per un serpente all’inizio di un nuovo ciclo di insegnamento.

Giravano tante leggende su Cristobal Jodorowsky e sul suo carattere che certo non era mite, ma forte, a volte inamovibile, fondato, vissuto, generoso, collerico, appassionato sì, sempre. Da buon maestro sapeva mettere in guardia contro le facili aspettative del risultato di un atto psicomagico da lui creato, affinché non lo si vivesse mai come una soluzione passiva a un importante conflitto, ma come un profondo atto di responsabilità verso se stessi e, sovranamente, la vita intera, una ristrutturazione della propria mappa percettiva e comportamentale.

Sciamano, spiritista, scrittore, terapeuta, mago, canalizzatore, attore, artista tout court, era capace di tenere chiacchierate interminabili anche fino a notte a una platea sfinita da intensi lavori corporali e psichici, sottolineando i rischi del pensiero patriarcale, delle strutture di potere, dei ruoli calcificati dei luoghi comuni sul maschile e femminile ma senza smontarli del tutto, anzi rievocandone l’appello a una ferina consistenza primitiva, non edulcorata, a differenza di tanti maestri, senza per questo sminuire mai nessuna scelta altra, da quella omosessuale alle forme non tradizionali di famiglia.

Maestro severo e compassionevole, troppo umano, spiazzante, come Don Juan con il perplesso Castaneda, sempre alla ricerca di quel sasso che potesse spaccare il cristallo spesso di un blocco esistenziale, di un rancore sordo, di un irrisolto paralizzante, a volte troppo orgoglioso altre volte di una umiltà e di una tenerezza disarmante, specialmente quando era accanto a lui la sua dolcissima Lola e le assistenti Fabiana e Stefania, lei quasi il suo arto italiano.

In termini di costellazioni familiari sicuramente sapeva creare e condurre un campo di connessioni di una potenza rara, teatrale, istrionica e ipnotica, spesso adornato di elementi della tradizione mistica sudamericana, olii, lenzuoli, chiodi, simil sangue, usati per disegnare coreografie decisamente insolite per il tradizionale setting Hellingeriano.

Eppure c’era in Cristobal Jodorowsky anche qualcosa di simile a una solida formazione psicoanalitica, elementi sincretici ma mai banalizzati delle più grandi religioni mondiali ma non solo, intrecciati in una costante danza di amore-odio con la faticosa, ineludibile eredità paterna; una relazione spesso citata con accenti molto diversi, dall’orgoglio, alla gratitudine, a una stima reverenziale, a un dolore sordo, kafkiano e freudiano anch’esso.

Stupire… stupiva sempre, uscire anche solo da poche ore di un suo incontro creava una fratellanza, una sorellanza difficili da raccontare, che continua ancora oggi, quella di chi si è messo a nudo in ogni senso, svelando al confessionale del rituale condiviso le proprie fratture più intime, le angosce inconfessabili, sapendole al sicuro.

Grande protagonista con lui il corpo, restituito alla sua originaria connessione con il sacro, capace di reinventare costantemente una innocenza di connessione che nulla ha a che fare con l’abuso, con il morboso, piuttosto con la danza, il massaggio, la carezza, la sfida, il gioco, rabbia incanalata, una purezza alchemica primordiale.

Entrare nel suo spazio sacro di lavoro era partecipare ogni istante a qualche insospettata iniziazione, anche quando gridava, sembrava non capire, insisteva con sgradevolezza apparente sui punti ciechi di ogni partecipante; ma sapendosi fermare dove non c’era strada.

Alla fine di un corso ci disse che i diplomi non servivano a niente e colse un fiore per ognuno. Poi arrivò il diploma.

Non credo sarebbe felice che io ne scriva, sapeva mantenere le distanze, i confini, i podii, per perderli spiazzandoti in una risata improvvisa, straripante di provocazione e di coscienza. Una notte, dopo una specie di litigata con lui – forse facevo sempre troppe domande – ho avuto la sensazione che venisse a trovarmi in sogno sotto la forma di un tricheco, a ricordarmi l’importanza dell’ironia, della leggerezza, della condivisione non necessariamente confortevole.

Sicuramente non ti faceva mettere comoda, ma non sprecava un battito di ciglia. Sugli atti che consegnava non sciuperò una virgola, ne racconta molti nei suoi scritti, ma sicuramente seguire le sue intuizioni richiedeva coraggio e determinazione, l’assenza di una visione tabuizzata, pur nel profondo rispetto di ogni storia, un’apertura all’ignoto impegnativa e una massiccia dose di umorismo.

Da un po’ di giorni, per vari motivi nell’ambiente a me vicino, sento nominare il luogo di Borgo Paola, dove privilegiava lavorare in una jurta di vetro in mezzo al verde, e mi viene da pensare che la sua vita profonda, quella che potremmo per comodità chiamare anima, si stesse preparando a diventare più grande di quello che era – molto – per esperire direttamente tutte le dimensioni che le sue proposte di meditazione facevano intuire.

Dovessi dire che ho risolto le istanze per cui ho indagato il suo pensiero, non ancora. Eppure non sento di aver perduto un attimo nel fare luce potente, nella mia bulimia di ricerca costante, su un’immensità di temi strutturali, potenziando l’amore per le contraddizioni e l’accoglienza dell’imperfetto. Gli voglio bene.

Mi scuso per la parzialità narrativa, io non lo conoscevo bene. Gli sono grata per tutto  e nonostante tutto. Il rigore verso l’autenticità e la capacità di non fermarsi a metà strada, per nessun motivo, sono il ricordo più forte che mi porto inciso, nel sangue e nella luce, i territori dove scorrazzava liberamente e dove probabilmente continua a farlo.

Uno così non scompare come se niente fosse.

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