Esaltare la bellezza dei luoghi con il fascino di una musica interpretata da grandi talenti del panorama italiano: è questo il senso del Festival della Tuscia nato da un’idea di Vittorio Sgarbi e messo in piedi in quattro e quattr’otto (si fa per dire, ma comunque in soli tre mesi) dal Comune di Viterbo per dare il via ad una rinascita culturale ed artistica della Tuscia, terra di grandi bellezze incomprese.

Tutto nasce dalla illuminata politica di Chiara Frontini, la nuova sindaca di Viterbo, che ha scelto di inserire nella sua amministrazione un’Assessorato alla bellezza, che ha affidato a Vittorio Sgarbi, che di bellezza se ne intende davvero. Non paga, ha scelto poi di avere al suo fianco, come vice sindaco con delega alla cultura, Alfonso Antoniozzi, baritono e regista italiano di grande spessore artistico.

La scelta della sindaca si rivela vincente: da questo binomio perfetto nasce infatti il Festival della Tuscia che, sotto la direzione artistica del pianista Massimo Spada, che vanta un’intensa attività concertistica nel mondo, si è declinato in sei eventi musicali di altissimo livello, combinando l’esclusività delle location con la raffinatezza musicale delle proposte selezionate.

Una specie di prova generale che, visto il successo, darà il via ad un Festival della Tuscia annuale che, nelle intenzioni, dovrà diventare un appuntamento fisso a partire dal 2023.

Ciascuna serata è stata impeccabile, per l’esecuzione magistrale degli artisti invitati a suonare, per la bellezza dei luoghi scelti (un santuario ricco di preziosità, alcuni palazzi storici pieni di affreschi ed un teatro cittadino) e per l’adesione entusiastica del pubblico.

La marcia in più di questo festival è nell’idea di osare proposte musicali più audaci, come la suite Ma mere l’oye, di Maurice Ravel, cinque pezzi infantili per pianoforte a quattro mani, in cui la raffinata pianista Beatrice Rana si è distinta, al fianco dello stesso maestro Massimo Spada, intessendo, con le quattro mani sulla tastiera, un sofisticato ricamo di suoni. Impossibile non perdersi in fantasie fiabesche nell’ascoltare quelle note così intrise di suadente gioiosità e scherzosa allegria. Meraviglioso anche il successivo ensemble di archi che ha eseguito un grande classico di Antonin Dvořák, il quintetto per pianoforte ed archi n° 2 in la maggiore, opera 8.

Tra i momenti più intensi, quelli con il Sestetto Stradivari, che ha interpretato il Capriccio di Richard Strauss e il sestetto Souvenir de Florence di Pëtr Čajkovskij con un’effervescenza irresistibile. Due violini, due viole e due violoncelli creano un tessuto sonoro dall’articolazione complessa, in cui ciascuno strumento è protagonista assoluto, ed interagisce con gli altri in un gioco intrigante di battute e risposte.

E’ quello che si chiama musica da camera, ma bisognerebbe cambiarle il nome: musica da camera infatti è una definizione che, a mio parere, non riesce a spiegare davvero la bellezza di questo tipo di musica classica, e anzi tende quasi a sminuirla.

Il nome parrebbe fare riferimento al fatto che può essere suonata in un ambiente piccolo, visto che i musicisti sono pochi (tre, quattro, cinque, raramente di più). Quasi come se fosse una musica figlia di un dio minore. Al contrario, nella musica da camera risplende sia la bravura del compositore sia quella di ogni singolo musicista.

Infatti ciò che distingue la musica da camera dalla musica orchestrale è che ciascuno strumento è un solista, segue una sua partitura, che va poi ad affiancarsi alle partiture degli altri strumentisti: il risultato è una musica d’insieme in cui si percepiscono le varie strutture musicali indipendenti l’una dalle altre.

Non un coro quindi, non un suono orchestrale in cui tutti gli strumenti interpretano le stesse note, ma un dialogo a più voci, in cui ciascun musicista segue un proprio disegno melodico, che è secondario o si sovrappone (o talvolta si sottopone) al disegno melodico principale suonato dal primo violino o dal primo violoncello.

Un tipo di musica che esalta anche la bravura del compositore, che non deve scrivere una singola partitura, ma piuttosto cinque o sei partiture diverse che vanno poi incrociate nei loro disegni melodici per raggiungere un progetto musicale unitario.

Questo festival ha anche l’ardire di divulgare tra un pubblico più ampio un certo tipo di musica classica che spesso rimane all’interno di ristrette elite di appassionati. Non è sfuggito infatti, nel corso di queste serate, che il pubblico fosse poco avvezzo a certa musica da camera, perché qua e là partiva qualche applauso inopportuno, quando invece gli esperti sanno che bisogna applaudire sempre solo dopo l’ultimo tempo di una suite.

Ma questo è un bene, perché è noto che la bellezza della musica va insegnata perché possa essere compresa, non è sempre facilmente afferrabile, e dunque educare il pubblico all’ascolto è sicuramente uno sforzo che porterà i suoi frutti.

L’audacia del direttore artistico Massimo Spada è emersa poi a chiare lettere nella serata finale, in cui il maestro ha voluto davvero testare il pubblico con un concerto insolito, per violoncello solo. Una rarità, perché il violoncello difficilmente viene considerato uno strumento solista.

Ma ieri sera, nella suggestiva location di palazzo Cozza Caposavi di Bolsena, che da solo merita una visita per la bellezza delle sale affrescate, dei soffitti a cassettoni dipinti e degli arredi settecenteschi, il maestro Alessio Pianelli ha saputo dimostrare con destrezza che un violoncello, da solo, può conquistare anche gli animi più refrattari.

Nell’ascoltare Alessio Pianelli si ha l’impressione che non ci sia soluzione di continuità tra lui e lo strumento, ma anzi sembra quasi che si realizzi un’osmosi tra il corpo in carne ed ossa dell’artista e il suo violoncello, per finire ad essere l’uno la prosecuzione dell’altro.

Alessio Pianelli, palazzo Cozza Caposavi

In una sala dipinta da Antonio Tempesta, uno dei più significativi pittori del Rinascimento italiano, Alessio Pianelli ha sfoderato una scaletta che mescola le sonorità settecentesche di Bach e quelle ottocentesche di Alfredo Carlo Piatti a quelle contemporanee di Sollima, evocatrici di atmosfere mediterranee calde e carezzevoli. Per poi incantare la platea con una sua composizione, intitolata Da BACo a FaRFalLa, in cui i suoni quasi onomatopeici del vibrato lasciano immaginare proprio il baco che schiude il bozzolo per spiccare il volo.

Ma il Festival della Tuscia non è che il primo appuntamento di una serie di eventi creati per esaltare la bellezza, eventi progettati per mettere in rete il patrimonio della città di Viterbo ed amplificarne le potenzialità generando un legame tra il territorio e i viterbesi.

E’ l’iniziativa Condividi la Bellezza che fonde insieme la mostra Michelangelo e Sebastiano del Piombo, organizzata al museo dei Portici di Viterbo fino al 15 gennaio e l’esposizione Fakes. Il falso nell’arte da Annio a Omero, una esposizione avvincente che racconta l’appassionante capitolo del falso nell’arte attraverso i capolavori del cremonese Alceo Dossena (1878-1937), il più celebre scultore-falsario dell’Ottocento, formidabile creatore di sculture apparentemente greche, etrusche o rinascimentali.

La mostra rimarrà aperta fino al 23 febbraio 2023. Tra le opere anche i marmi assemblati nel Quattrocento da frate Annio da Viterbo, considerato il primo archeologo-falsario della storia italiana, che sceglie di usare le sue creazioni per esaltare le mitologiche origini di Viterbo.

L’iniziativa, concepita e fortemente voluta da Vittorio Sgarbi, è l’ennesima conferma di quanto in molti pensano a proposito del noto critico e storico dell’arte, che esprime tutto il suo contagioso talento quando agisce nel suo ambito, quello dell’arte, creando ponti che collegano gli esseri umani alla bellezza.

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