“Così Diadora sfida i giganti dello sport. La nostra forza? Territorio e proximity”
Parla Enrico Moretti Polegato, ad dell’azienda di Montebelluna. “ La diversità è ricchezza, da noi non esiste nemmeno la parola. Esg, meno annunci e più fatti”
Parla Enrico Moretti Polegato, ad dell’azienda di Montebelluna. “ La diversità è ricchezza, da noi non esiste nemmeno la parola. Esg, meno annunci e più fatti”
Enrico Moretti Polegato, figlio d’arte (il padre Mario ha fondato e dirige la Geox), è alla guida di Diadora. E’ un ottimista. E la sua azienda si fa strada su un terreno difficile, con concorrenti dai nomi che fanno paura, come Adidas e Nike. Ma con progressività costante si avvicina al suo obiettivo: rappresentare l’eccellenza italiana nello sport. E per farlo punta sul lavoro di squadra: azienda, dipendenti e territorio. Assieme, per il bene comune.
Polegato, chi cerca occupazione chiede qualcosa di più che la sola retribuzione, e allora chi la offre mette sul tavolo anche i suoi valori. Il mondo del lavoro sta cambiando?
“Si sta cambiando, ma non è una novità. I cambiamenti possono accelerare o rallentare, ma non si è mai visto che il mondo torni indietro. L’importante, per chi è in azienda, è che lo si intuisca prima che il tutto accada. E spesso i cambiamenti sono accelerati quando c’è un ricambio generazionale alla guida, un passaggio di testimone. Noi in Diadora abbiamo cambiato marcia e non ci siamo limitati ad adattarci ma abbiamo svoltato e puntato su prodotti che parlino di più ai millenials. Cambiando la filosofia alla base dell’azienda”
E come?
“Con il concetto di proximity. Perché fuori devono vedere come sei dentro. Come lavori al tuo interno è esattamente come rappresenti l’azienda all’esterno. Diadora vuole simboleggiare l’eccellenza italiana nello sport e allora deve essere un’azienda che si relaziona con tutt* gli altr* attor*, che siano i collaboratori e le collaboratrici interni e interne o quell* estern* o i clienti che sono gli utilizzator* finali. Proximity significa che dobbiamo rapportarci con tutte queste persone e, per quanto possiamo , avvicinarsi all’idea di prenderci cura gli uni degli altri. Il marchio, insomma, deve essere la carta di identità di valori ben chiari nei quali il consumatore, o la consumatrice, si possa identificare. E per questo curiamo lo sportivo e la sportiva professionista: perché lui, o lei, non è solo il/la testimonial di un logo, ma quello con cui lavoriamo per migliorare la performance del prodotto. Questa è la proximity che riguarda l’esterno. Che è quella, speculare, che c’è all’interno.”
E in cosa consiste?
“Che all’interno tutto deve essere fatto in condivisione, in modo che tutt* si sentano parte di Diadora. Bisogna che il tuo percepito quando sei all’interno dell’azienda sia positivo, che l’esperienza di lavorare in Diadora sia la migliore possibile. E non solo per quello che mettiamo a disposizione, come la palestra aziendale per tutt* i collaborator*, o la pausa pranzo dove si possono mettere le scarpe nuove fiammanti e correre sulle colline, o ancora i corsi organizzati. Ma anche la ricchezza della componente umana”.
Voi avete 274 dipendenti che arrivano da 16 paesi diversi. La diversità una volta era considerata un ostacolo, oggi non più. Mi sbaglio?
“No, è vero. Ma attenzione ai termini. Nel momento in cui tu dici di promuovere la diversità identifichi qualcun* come diverso da te. Questo è un errore gravissimo. La diversità viene in automatico nel momento in cui ti poni il problema: chi ho davanti? Quali sono i suoi elementi di diversità? Io non ho mai assunto una donna perché mi dicevano che per quel posto lì ci volesse una donna o uno straniero, o un altro o un’altra. Si è deciso – conversando con questa persona, di qualsiasi background etnico, geografico o di genere fosse- che era la più adatta. La diversità allora deve essere combattuta nella società più che promossa all’esterno. E noi qui abbiamo punti di vista differenti che ci arricchiscono”.
E non avete paura della fuga di talenti verso i vostri concorrenti? Non si impoverisce il know-how dell’azienda?
“La questione è complessa. Ma vediamola così. Se io ho assunto un giovane o una giovane in Diadora e dopo due anni un gigante come Nike si accorge della sua esistenza, vuol dire che qui dentro Diadora e grazie a lui o a lei abbiamo fatto un lavoro enorme di creazione di talento. A me quello che preoccupa è quando il talento se ne va e non torna, perché è cresciuto ma non ha occasioni in Italia. Se invece qui in Italia abbiamo creato un talento che poi viene potenziato all’estero e che poi magari rientra in Italia con nuove competenze, la cosa ci aiuta a far crescere l’azienda e il Paese: è una medaglia al merito per la persona e per l’impresa che lo ha seguito. Dobbiamo evitare che i talenti fuggano perché non si sentono valorizzati. E dobbiamo offrire oltre al valore monetario, anche una flessibilità per permettere di contemperare le esigenze di vita lavorativa e vita personale” .
Un’azienda è percepita come positiva anche quando restituisce qualcosa al territorio dove opera. Voi cosa fate?
“Diadora è insediata nel distretto dello sport di Montebelluna. Le competenze che si trovano qui non ci sono da nessun’altra parte, siamo un centro mondiale di eccellenza dello dello sport. Noi restituiamo al territorio investendo nel territorio. Per mantenere il know how della scarpa sportiva di Montebelluna all’interno della nostra azienda. Noi lavoriamo insieme al territorio perché il distretto lo sport di Montebelluna non sia qualcosa che riguarda il passato ma che guarda al futuro. Discutiamo con le autorità locali ed estere per promuovere lo sport. Un anno fa abbiamo inaugurato il Liberia con George Weah, calciatore poi diventato presidente del suo Paese, un centro per i bambin* di strada a cui abbiamo fornito tutto il prodotto tecnico per farlo funzionare Ora, intendiamoci: un pallone non risolve un problema di povertà; ma è importante che i bambini e le bambine abbiano un ambiente protetto, controllato, non pericoloso e attività sportive che aiutano a sviluppare attività cognitive e fisiche Tutto può essere di aiuto. Ma facciamo di più qui in Italia. Ma in modo diverso”.
E come?
“Ogni 8 marzo invece di regalare una mimosa a ogni collaboratrice sposiamo una causa di emancipazione. E ci impegniamo a novembre in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, che è oggi ancora più grave che in passato. La cosiddetta questione femminile ha due facce, l’emancipazione e la violenza. Vanno combattute con l’immaginazione e con atti pratici e certificati”.