1963. Il grande Vittorio De Sica presiedette la commissione selezionatrice delle canzoni del 13mo Festival di Sanremo. Mostrò di non capire (o, meglio, di non voler capire) i profondi cambiamenti in atto nella musica, si rifiutò di prendere atto di come il rock americano avesse già contaminato le nostre melodie, e così, come risultato, a poco più di un mese dall’uscita dell’album di debutto dei Beatles (Please please me, che avrebbe stravolto tutto per sempre), la nostra gara canora rimase questione di Wilma De Angelis, Luciano Tajoli, Aurelio Fierro et similia.

2011-2012: esplosero i social media. La generazione dei 50-60enni ci si buttò a capofitto, acquisendone meccanicamente i linguaggi, invadendo di hashtag persino le note della spesa e inaugurando una patetica gara di giovanilismo le cui vittime finirono per essere tutte interne, cioè 60enni che iniziarono a sentirsi dare dei vecchi da coetanei dediti all’Hi guys! e ai nascenti ritmi trap.

Appena cinquant’anni separano il primo episodio dal secondo. Un soffio, in termini storici. Ma paiono cinquanta secoli. Se vogliamo cercare le cause di questa sconcertante differenza, dobbiamo sfrugugliarne solo una, la solita: i soldi.

Il valore delle generazioni

La generazione di De Sica era fieramente orgogliosa di se stessa. Aveva fatto il boom economico, risollevando l’Italia dalle macerie del più catastrofico conflitto di tutti i tempi e impressionando il mondo al punto da meritare alla lira l’Oscar della miglior moneta. Agli occhi di quegli uomini e di quelle donne, i giovani non erano nulla più che viziati figli di papà, privi di esperienza e da guidare come al guinzaglio.

Al contrario, le generazioni dei 50-60enni degli anni Dieci del XXI secolo si ritrovarono a essere le prime ad avere meno soldi di chi le aveva precedute, con ciò trascinandosi complessi d’inferiorità devastanti anche alla luce delle altissime aspettative della vigilia – una vigilia fatta di scolarizzazione di massa, plurilauree e master in quantità.

Con questa premessa, pare evidente come il fiorire subitaneo dei social media, che nel giro di settimane stravolse modalità di contatto millenarie, avesse insinuato in tutti gli over fifty il dubbio d’essere giunti al capolinea prima del tempo, di non aver più nulla da esprimere rispetto al poco che ritenevano d’aver espresso. Da qui la reazione, la classica toppa peggiore del buco: un’isterica e aprioristica legittimazione di qualsiasi cosa odorasse anche lontanamente di Millennial, a prescindere da lati critici e controindicazioni. L’inconscia intenzione era di non ammettere d’essere invecchiati, quasi che l’età fosse una condanna, che l’esperienza non avesse valore, anzi ne avesse in negativo, nonché di illudersi d’avere ancora tutta una vita davanti, come gli adolescenti, cui s’iniziò a guardare come modelli di riferimento (il colmo dell’assurdo).

Dato quanto sopra, secondo me non è affatto un caso, ma proprio per niente, che dalla penna di Ilaria Marchioni (coach PCC, senior trainer ed ex dirigente di banca), Gaia Moretti (sceneggiatrice e sociologa, già docente di comunicazione interculturale) e Giulia Tossici (psicologa, docente e vicepresidente del Consiglio Pari Opportunità della Regione Lombardia), oggi, una dozzina d’anni dopo questi chiamiamoli fattacci, sia uscito per i tipi di Egea (la casa editrice dell’università Bocconi) il volume Il valore non ha età–Persone e organizzazioni oltre il divario generazionale, con prefazione di Linda Serra.

Evitare le trappole per chi lavora
alle risorse umane

È un libro che chiunque si trovi in posizioni di responsabilità HR, dirette o indirette, dovrebbe tenere sul tavolo, come un breviario, per evitare di cadere in numerose trappole di comodo. Prima trappola: assumere giovani a prescindere, perché costano meno, senza tener conto della maggiore esperienza – e dunque della maggiore capacità – dei senior. Seconda trappola: schifare i giovani, cioè ricadere nell’errore di De Sica 1963, come se la freschezza e l’assenza di schemi mentali d’altri tempi non possano apportare benefici. Terza trappola: l’esaltazione acritica del giovanilismo, la ricerca dell’influencer fine a se stesso, la corsa ai numeri e non al valore, che, appunto, non ha età.

Qui mi fermo, la mia è solo una premessa, molto personale ma sentita. Una sorta di linea guida che mi permetto di suggerirvi per interpretare l’urgenza di questo saggio e la sua meritorietà.

Adesso, che la parola passi alle autrici. Buona lettura!

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