Ci sono novità. Abbiamo un ministero della transizione ecologica, abbiamo una nuova coscienza ecologica globale, abbiamo multinazionali e miliardari impegnati nella lotta al riscaldamento globale. A uno sguardo più attento, non proprio.

Siamo sicuri che non sia la solita spennellata di verde, il greenwashing che tanto ci si dà in questo periodo? Se per le prime due novità possiamo ancora porre un dubbio legittimo, sebbene i primi segnali non siano troppo rassicuranti in funzione di una rinnovata spinta e concretezza ecologica, per il terzo punto possiamo azzardare che non sia affatto così. Sarebbe ingenuo credere che le grandi multinazionali, i miliardari e molte altre categorie di persone – uomini ricchi principalmente – improntino le loro strategie di impresa unicamente per proteggere l’ambiente. Certo, può essere un aspetto, ma non dobbiamo mai dimenticare quanto la strategia di marketing sia una importante fonte di rappresentazione sociale agli occhi dei più, soprattutto in un momento come questo. A questo proposito, è interessante leggere cosa dice la rappresentazione sociale di Moscovici. Un’organizzazione produce, consuma, impatta troppo: un metodo discusso in altre sedi e che non va proprio a braccetto con la crisi climatica incombente.

Allora come risolvere un problema globale e sistemico? Ci ha pensato Elon Musk, che in un suo tweet di qualche tempo fa proponeva di donare cento milioni alla tecnologia migliore per eliminare la CO2. La cosa ha creato scalpore, mentre qualcuno ironicamente commentava “Trees?”. La questione, ahimè, è molto più complessa, ma ci fa intuire un fatto di base: la ricerca di una tecnologia che risolva i problemi della crisi climatica non può avvenire in due anni, avrà bisogno di tempo, di sperimentazione, di fondi. Ingenti fondi che possiedono solo poche persone sulla terra. Ne possono trarre profitto, giusto o sbagliato che sia, ma col rischio che sia anteposto l’interesse privato al benessere collettivo. Il punto del discorso è che si affida il destino di un pianeta a una ristrettissima cerchia di persone che non può avere competenze in tutto, dai settori dei trasporti, dell’industria, dell’agricoltura, fino alla pesca marittima e via dicendo. Sono cose che fanno parte del problema, che coinvolgono enti, persone, comuni e istituzioni, comunità, posti di lavoro, esperti di vario tipo. E in tutto ciò, per chiudere il cerchio, le organizzazioni o pochi fra quei volti noti che sembrano muoversi si rappresentano come dei protettori della terra fuorviando le persone sulle loro più complesse intenzioni, che siano organizzative o di umane ambizioni alla base del loro agire: intanto, la società crea una rappresentazione non propriamente corretta, o molto semplificata, di queste sfaccettature, quando nella crisi climatica niente è semplice.

La narrativa è questa: servono tecnologie e il singolo ha un impatto sul mercato. Infatti, diamo sempre per scontato che tutti possano fare un qualcosa e perciò lo debbano fare. A questo proposito, Il Post, in un articolo dello scorso settembre, ribadiva ancora che l’impegno individuale è la base per un impegno collettivo. Il Post riporta le dichiarazioni della giornalista Annie Lowrey dell’Atlantic affermando che “l’adozione diffusa di pratiche e comportamenti individuali sostenibili renderebbe più facile per i governi introdurre leggi più stringenti e ambiziose. In generale le leggi funzionano meglio quando rispecchiano quello che la gente fa già o perlomeno sta iniziando a fare”.

Alcune critiche mosse nel passato al nostro movimento affermavano bisognasse aspettare che il singolo si adattasse e che prendesse la palla in mano. In primo luogo, sappiamo bene che non è possibile costruire una universalità di intenti. E semmai, abbiamo spostato la lente, costruendo una narrativa che fino a due anni fa non era presente: il tempo per cambiamenti importanti e necessari è sempre meno. L’impegno individuale non è abbastanza. Servono azioni mirate, repentine, dall’alto.

Proprio perché la pandemia è stata trattata come una crisi, ed è giusto fosse così, al tempo stesso anche il riscaldamento globale dovrà essere trattato al più presto come una crisi. Tale da non costringere (anche le persone già più virtuose) a inquinare e consumare meno con DPCM attuativi, ma incentivando e agevolando le persone per mettere in pratica atti di riciclo, risparmio, recupero di risorse, per definire da subito un principio collettivo di sostenibilità rispettando così i principi simmetrici di giustizia climatica e giustizia sociale. Per questo, vi suggeriamo di seguire la nostra prossima manifestazione del 19 marzo, dai social e live ove possibile. Sarà un giorno ricco di contenuti, esperienze, conoscenze e azioni. Né un miliardario né un singolo possono fare tutto questo.

Marzio Chirico per conto di Valeria Belardelli

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