(English translation below)
“Viaggiare? Per viaggiare basta esistere. A che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, al Polo: dove sarei se non dentro me stesso e nello stesso genere delle mie sensazioni? La vita è ciò che facciamo in essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo”. 

Lucidissimo, Pessoa regola in modo lapidario la necessità del viaggio – ovvero la sua inutilità. Il viaggio è solo una delle illusioni alla possibilità di sfuggire alla monotonia, al senso di estraneità che costituisce il nostro stare al mondo. L’illusione forse più dispendiosa, magari anche avventurosa, ma pur sempre vana: la noia non ci abbandonerà nemmeno al cospetto di tramonti tropicali o in città lontane e tumultuose, almeno a saper guardare dentro noi stessi senza ingannarci. Così, ne Il Libro dell’inquietudine (ne esistono numerose edizioni: Guarda, Mondadori, Feltrinelli, Liberamente…), Pessoa annuncia il suo viaggiatore preferito: 

“Un ragazzino di un ufficio dove una volta ho lavorato. Costui collezionava dépliant pubblicitari di città, di compagnie turistiche; possedeva delle carte geografiche (alcune strappate da qualche rivista, altre che raccoglieva qua e là); aveva delle illustrazioni di paesaggi, delle stampe di costumi esotici, delle fotografie di navi ritagliate da giornali e riviste. Andava alle agenzie d viaggio, a nome di un ipotetico ufficio, nel quale lavorava, e chiedeva dépliant per un viaggio in Italia, per dei viaggi in India; opuscoli pubblicitari delle rotte navali fra il Portogallo e l’Australia.

Non era solo il più grande viaggiatore, perché il più vero che ho conosciuto: era anche una delle persone più felici che ho avuto occasione di incontrare. Mi dispiace aver perso sue notizie; o in realtà suppongo solo che mi dispiaccia; in realtà non mi dispiace, perché oggi, passati più di dieci anni dal breve tempo in cui l’ho conosciuto, deve essere un uomo, stupido, un uomo che compie i suoi doveri, forse sposato, sostegno sociale di qualcuno. Insomma, un cadavere della sua stessa vita. È perfino possibile che abbia viaggiato con il corpo, lui che sapeva viaggiare così bene con l’anima. 

Mi ricordo: costui sapeva esattamente per quali ferrovie si andava da Parigi a Bucarest, per quali ferrovie si percorreva l’Inghilterra; e nella sua pronuncia sbagliata di nomi bizzarri c’era l’olimpica certezza della sua grandezza d’animo. Oggi, sì, sì deve esistere come un morto; ma forse un giorno, da vecchio, si ricorderà quanto non sia solo migliore ma più vero sognare Bordeaux che sbarcare a Bordeaux”.

L’inconfutabilità di Pessoa

Gli argomenti di Pessoa non sono confutabili con le normali categorie del ragionamento, delle esperienze personali – sono inconfutabili, anzi; sono perfino rafforzati dalla lezione delle restrizioni da pandemia: confinamenti che costringono a viaggi fermi, spostamenti soggetti al non toccare, non respirare liberamente, non lasciarsi avvolgere. Il viaggio, mai come in questi mesi, è qualcosa che non vale la pena. Per molti questo equivale a una dose supplementare di tedio, chiusi in casa, senza vacanze. Ma non per i veri viaggiatori, la cui anima sa mettersi per cammini infiniti a forza di sfogliare dépliant di viaggio od orari online.  

Sono esercizi, sovente solitari ma possibili anche in compagnia, che possono portare molto lontano. Pessoa ricorda Niccolò Machiavelli che dopo aver fatto bisboccia in osteria si chiude nella sua stanza, veste gli abiti del cortigiano, e si immagina di nuovo nei palazzi della Repubblica, consigliere e diplomatico, e guardandosi allo specchio così agghindato ritrova la capacità di immaginare, e anche quella di scrivere. Su Rewriters del 3 dicembre scorso, Meltea Keller suggerisce un eco-viaggio orientale attraverso le liriche cinesi: chi seduto a casa sua le vede, viaggia molto di più attraverso quelle poesie di molti annoiati globe-trotter fisici.

Con ben altro linguaggio rispetto a Pessoa e alle liriche cinesi, lo scherzo di un breve video che divenne virale, trasforma un ragazzo seduto accanto allo sportello della lavatrice in un viaggiatore su un volo intercontinentale. In mano ha un bicchiere di prosecco, tra le gambe un film sullo schermo del pc, ogni tanto irrompe la voce registrata con qualche messaggio del capitano che fa colore. Guarda la schiuma che si agita dietro l’oblò, e pare in mezzo alle nuvole. Si trova nello sgabuzzino di casa, pensa di essere seduto in business class – e il bello è che lo pensiamo anche noi, finché il campo del video non si allarga. Alla fine, è una questione di obiettivo, di quanto si voglia restringere “quell’episodio dell’immaginazione che chiamiamo la realtà”

ENGLISH VERSION

From Pessoa’s Book of Disquiet to Machiavelli, the journey without the journey into the freedom of the imagination

“Travelling? Travelling is enough to exist. What is the purpose of travelling? In Madrid, in Berlin, in Persia, in China, at the Polo: where would I be if not inside myself and in the same kind of my feelings? Life is what we do in it. Travels are travellers. What we see is not what we see, but what we are”.

Very lucid, Pessoa fixes the necessity of the journey in a lapidary way – or rather its uselessness. The journey is only one of the illusions of the possibility of escaping the monotony and the sense of strangeness that constitutes our being in the world. Perhaps it is the most expensive illusion, perhaps even the most adventurous one, but still, it is all vain: boredom will not abandon us even in the presence of tropical sunsets or in distant and tumultuous cities unless we know to look inside ourselves without deceiving ourselves. Thus, in The Book of Disquiet, Pessoa announces his favourite traveller:

“A kid from an office where I once worked. He collected advertising brochures of cities, of tourist companies; he possessed some geographical maps (some cut some magazine, others that he collected here and there); he had landscape illustrations, prints of exotic costumes, photographs of ships cut out of newspapers and magazines. He went to travel agencies, in the name of a hypothetical office for which he worked, and asked for brochures for a trip to Italy or to India, or advertising brochures of the shipping routes between Portugal and Australia. He was not only the greatest traveller, he was the truest I have known: he was also one of the happiest people I have had the opportunity to meet. I’m sorry I missed news of him; or really I just assume that he is sorry; actually, I don’t mind him, because today, more than ten years have passed since the short time I met him, he must be a man, stupid, a man who fulfils his duties, perhaps married, providing social support for someone. In short, a corpse of the same life as him. It is even possible that he travelled with his body, he who knew how to travel so well with the soul.

I remember: he knew exactly which railways were going from Paris to Bucharest, which railways were going through England; and in his wrong pronunciation of bizarre names there was the clear certainty of the greatness of his soul. Today, yes, he must exist as a dead man; but maybe one day, as an old man, he will remember how much it is not only better but more true, to dream of Bordeaux than to landing in Bordeaux”.

The irrefutability of Pessoa

Pessoa’s arguments cannot be refuted with the normal categories of reasoning, of personal experiences – they are irrefutable, indeed; they are even strengthened by the lesson of pandemic restrictions: confinements that force you to stop travelling, travel subject to not touching, not breathing freely, not being enveloped. The journey, never like in recent months, is something “not worth it”. For many, this equates to an extra dose of boredom, locked in the house, without “holidays”. But not for real travellers, whose soul knows how to dream about and how to embark on endless paths by dint of leafing through travel brochures or timetables online. These are exercises, often solitary but also possible in the company, which can take you very far.

Pessoa remembers Niccolò Machiavelli who, after having made a spree in the tavern, closes himself in his room, wears the clothes of the courtier, and imagines himself again in the palaces of the Republic, adviser and diplomat, and looking in the mirror dressed up in this way finds the ability to imagine, and even that of writing. In Rewriters of last 3rd December, Meltea Keller suggests an oriental eco-journey through Chinese lyrics: whoever is able to see, to visualize them, can travel much more through those poems than many bored physical globe-trotters.

In a very different language, the joke of a short video that went viral transforms a boy sitting next to the washing machine door into a traveller on an intercontinental flight. In his hand he has a glass of prosecco, between his legs, he watches a film on his PC screen, every now and then the recorded voice bursts with some “message from the captain”. He looks at the foam stirring behind the porthole, and it seems in the middle of the clouds. He is in the closet at home, yet he believes to sitting in business class. And we do the same until the vision of the video widens. Eventually, it is a question of managing the camera, of how much we want to narrow “that episode of the imagination that we call reality”.

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