(English translation below)
Combattimento e spostamento fanno rima, e la guerra è una delle madri del viaggio, una dea oscura e diabolica, che da Troia a Mariupol scandisce le danze delle truppe che partono per il fronte, e la fuga di chi abbandona la casa e si affida alla strada, e il volo dei bombardieri che solcano i cieli, e l’invio amorevole ai soldati lontani dei pacchi coi generi di conforto e delle lettere.

La guerra è un carosello di treni impossibili, di stazioni affollate all’inverosimile, di aeroporti che sono cordone ombelicale col resto del mondo, di rovine che moltiplicano il senso di estraniamento, di passeur e contrabbandieri che valicano i confini.

Guerra sono le carte geografiche dei militari e dei giornalisti, il gioco dei satelliti e delle loro osservazioni, la traiettoria dei missili e dei droni, la guerra è un viaggio di scene che si svolgono simultaneamente a Mosca e a Kiev, a New York e a Bruxelles.

È con la guerra che in molti scoprono la geografia, imparano nuovi nomi, o anche soltanto viaggiano col pensiero, immaginando cosa accade là – oggi, in Ucraina, dove dalla nebbia appare perfino un treno blindato come solo ne avevamo visti nelle avventure di Corto Maltese.

Alcuni, costretti dalle cose straordinarie in luoghi a loro remoti, scrivono per la prima volta a casa, dando vita a quel genere di letteratura di viaggio che sono gli epistolari e i racconti di guerra. Un tentativo di mettere ordine al caos, di parlare ancora con chi si è lasciato, di spiegare a chi non c’era, di non scordare quelle cose incredibili che la guerra svela ogni giorno, quasi ci si trovasse sulla Luna ma sempre pensando a casa. 

“Consumavo pian piano la pietra della lontananza. Andavo. Sapevo che c’era il mio posto dove tornare. Lo sapevo perché mi chiamava”.

Così ricorda un montanaro piemontese, l’alpino Piovano, che ventenne fu spedito con l’ARMIR in Ucraina e in Russia.

La sua vicenda è ricostruita da Giovanni Bonavia e Andrea Capello in Volevo tornare a mia casa (e curiosamente il tornare del titolo ha due R rovesciate come quelle di Rewriters, seme comune del bisogno di riscrivere guardando in tutte le direzioni), edito da Araba Fenice.

Il ventenne alpino scopre in quelle terre lontane un mondo cifrato, il paesaggio della devastazione, dove, come tante volte a me è capitato di osservare in Afghanistan, la natura detta la legge superiore al cospetto delle miserevoli e transitorie vicende umane:

“la terra è indifferente alla guerra, è fatta come me, pensa le sue cose. Anche in Russia lo avrei visto: quella enorme distesa era estranea alla guerra. Passavano i cingoli gli scarponi gli sputi di sangue. Dopo poco i segni sparivano, e la terra ridiventava uguale a prima”.

La vicenda dell’uomo, Pietro Piovano alpino, è un frammento di una vasto mosaico di viaggio, dove l’epopea dell’invasione e della ritirata si mescolano con episodi di inattesa umanità e con il cinismo di Togliatti sul destino dei prigionieri italiani che non poterono tornare mai, dei folli propositi delle false partenze – del genere “Guerra lampo! Binario morto. Poi facciamo i conti. Come è andata lo sapete”.

Sono frammenti della vasta letteratura di viaggio nella guerra, che nel fianco orientale dell’Europa ha trovato un humus tragico e propizio, fatto di nomi di città che oggi ci tornano familiari e di lande sterminate: 

“Hitler fa: “Io ci ho centomila carri armati”. “E noi abbiamo duecento miliardi di chilometri quadri pieni solo di vuoto e di niente”.

Il capolavoro resta Il sergente della neve di Rigoni Stern, altro alpino la cui tragica peregrinazione  in questa notte bianca d’Europa che fu la ritirata dalla Russia s’imbatte nelle avventure che solo i grandi viaggi sanno offrire.

Come quando entra nell’isba nella quale alcuni soldati russi stanno mangiando una zuppa con qualche donna. Rigoni abbandona il fucile e ne chiede una scodella, e in un silenzioso sbigottimento lo fanno sedere a tavola. Poi riparte nella ritirata: 

“una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere”.

Più tragico de Il sergente della neve, è oggi la rilettura di Ritorno sul Don, cronaca di un viaggio di Rigoni Stern trent’anni dopo la guerra.  È una visita sulla scena del crimine, fatta di incontri, riflessioni sulla pace che ha prevalso, e di comodi alberghi a Charkov. Oggi, col destino atroce che si è abbattuto su Charkov e su altri luoghi di quel percorso, queste pagine evocano anche il Ritorno della storia, il suo minaccioso riarrotolarsi verso la barbarie da cui non c’è redenzione.  

Fra i tanti altri titoli del genere, il capolavoro restano le Ultime lettere da Stalingrado, voci di soldati tedeschi accerchiati, privi di ogni rifornimento e rassegnati alla morte certa. Il loro viaggio era giunto al capolinea, nella fame e nel freddo. Imbarcate con l’ultimo volo, mai recapitate ai destinatari perché bloccate dalla censura che le considerava troppo demoralizzanti, e recuperate dopo la guerra, le lettere costituiscono un corale manifesto esistenzialista, con mille variazioni sul tema

C’è chi osserva il cielo russo:

la mia contentezza e il mio equilibrio li debbo alle stelle, e tra di esse tu sei per me la più bella. Avrei avuto caro di contare le stelle per un paio di decenni ancora, ma di questo, ormai, non ne sarà più nulla.”

Chi fa l’esame di coscienza: 

“non si può negare la mia colpa personale per questo stato di cose. Ma essa sta nel rapporto fra uno e settanta milioni: il rapporto è piccolo, ma esiste. Non penso di sottrarmi alla mia responsabilità ma ritengo di aver saldato il mio debito con il sacrificio della mia vita. Su questioni d’onore non c’è da discutere. Non dimenticarmi tanto presto”.

C’è il credente disilluso: 

“Ho cercato Dio in ogni fossa, in ogni casa distrutta, in ogni angolo, in ogni mio camerata, quando stavo in trincea, e nel cielo. Dio non si è mostrato, quando il mio cuore gridava a lui. Le case erano distrutte, i camerati erano tanto eroici o così vigliacchi quanto me, sulla terra c’erano fame e omicidio e dal cielo cadevano bombe e fuoco. Soltanto Dio non c’era. No, padre, non c’è nessun Dio. Lo scrivo di nuovo, e so che è una cosa terribile e per me irreparabile. E se proprio deve essere un Dio, è solo presso di voi, nei libri di salmi e nelle preghiere, nelle pie parole dei preti e dei pastori, nel suono delle campane e nel profumo dell’incenso. Ma a Stalingrado, no.”

Chi cerca di rassicurare: “Intendo rinunciare alla mia licenza in febbraio o marzo”.

C’è la lucida rassegnazione del fine percorso: “Non ci vuole proprio nessun talento visionario per prevedere la fine. Come lo sarà, non lo saprai mai”.

Come faccio sempre, ho segnato sul libro luogo e data della lettura. Ultime lettere da Stalingrado l’ho letto due volte: “Parigi febbraio ’97” e “Kiev febbraio 2008”.

Quella volta vi andai in missione, erano europeisti entusiasti, Kiev era una città splendida e aperta. Mai avrei pensato che tra qualche anno saranno pubblicate le ultime lettere o post dei coscritti russi, degli eroici resistenti ucraini, degli abitanti di Mariupol o Kiev tra nuove macerie. Ma la guerra pare un viaggio che non finisce mai, a cui si torna sempre e da cui non si ritorna mai.  

ENGLISH VERSION

There is a vast literature of travel
in the war: I have chosen 3 books
of soldiers in Russia and Ukraine,
and I tell you why

Combat and displacement rhyme, and war is one of the mothers of the journey, a dark and diabolical goddess, who from Troy to Mariupol spells out the dances of the troops leaving for the front, and the escape of those who abandon their homes and take up the road, and the flight of the bombers crossing the skies, and the sending to distant soldiers of packages and letters.

The war is a carousel of impossible trains, of overcrowded stations, of airports standing as the only link to the rest of the world, of ruins multiplying the sense of estrangement, of passeurs and smugglers who cross borders, and war are the geographical maps of the military and journalists, the game of satellites and their observations, the trajectory of missiles and drones, war is a journey of scenes taking place simultaneously in Moscow and Kiev, in New York and in Brussels.

It is through a war that many discover geography, learn new names, or travel with thought, imagining what happens there – today, in Ukraine, where even an armoured train appears from the fog as we had only seen in the adventures of Corto Maltese.

Some, forced by extraordinary things in remote places, for the first time write letters and personal notes, generating travel literature that are letters and war stories. An attempt to put the chaos in order, to talk again with those who left, to explain to those who weren’t there, to not forget incredible things that war reveals every day.

“I slowly consumed the stone of the distance. I was going. I knew there was my place to return. I knew it because he was calling me. ” So remembers a Piedmontese mountaineer, the “Alpino Piovano”, who in his twenties was sent with ARMIR to Ukraine and Russia.

His story is reconstructed by Giovanni Bonavia and Andrea Capello in I wanted to go back to my home (and curiously the return of the title has two inverted R like those of Rewriters, the common seed of the need to rewrite looking in all directions), published by Araba Fenice.

The 20-year-old Alpine man discovers in those distant lands an encrypted world, the landscape of the devastation, where, as I have often observed in Afghanistan, nature dictates the superior law in the presence of miserable and transitory human events: “The earth is indifferent to war, she is made like me, she thinks about her things. Even in Russia, I would have seen it: that huge expanse was foreign to war. The tracks, the boots, the spitting of blood passed by. After a while or the signs disappeared, and the earth became the same as before. “

The story of the man, Pietro Piovano alpino, is a fragment of a vast mosaic of travel, where the epic of invasion and retreat are mixed with episodes of unexpected humanity and with Togliatti’s cynicism on the fate of Italian prisoners who could never return, of the crazy intentions of false starts.

They are fragments of the vast literature of travel in the war, which on the eastern side of Europe has found tragic and propitious humus, made up of the names of cities that are familiar to us today and of endless lands: “Hitler says:” I have a hundred thousand chariots armed “. “And we have two hundred billion square kilometers filled only with emptiness and nothing”.

The masterpiece remains The sergeant of the snow by Rigoni Stern, another alpine whose tragic pilgrimage in this “white night” of Europe which was the retreat from Russia encounters the adventures that only great journeys can offer. Like when he enters the isba where some Russian soldiers are eating soup with some women. Rigoni abandons his rifle and asks for a bowl, and in silent astonishment they make him sit down at the table. Then he sets out again in the retreat: “For once, circumstances had led men to know how to remain human people. Who knows where those soldiers, women, and children are now. I hope the war has spared them all. As long as we are alive we will remember, all of us we were, how we behaved. Children especially. If this has happened once, it can happen again. It could happen, I mean, to countless other men and become a custom, a way of life”.

More tragic than The sergeant of the snow looks today the re-reading of Return to the Don, the chronicle of a trip by Rigoni Stern thirty years after the war. It is a visit to the crime scene, made up of official meetings, reflections on the prevailing peace, and comfortable hotels in Charkov. Today, with the atrocious fate that befell Charkov and other places around, these pages also evoke the “Return” of history, its threatening roll back towards the barbarism from which there is no redemption.

Among the many other titles of the genre, the masterpiece remains the Last letters from Stalingrad, voices of German soldiers surrounded, deprived of all supplies, and resigned to certain death. Their journey had come to an end, in hunger and cold. Embarked on the last flight, never delivered to recipients because they were blocked by the censorship that considered them too demoralizing, and recovered after the war, the letters constitute an existentialist manifesto, with a thousand variations on the theme.

There are those who observe the Russian sky: “I owe my happiness and my balance to the stars, and among them, you are the most beautiful for me. I would have loved to count the stars for a couple of decades yet, but of this, by now, there will be none”.

Who does the examination of conscience: “My personal guilt for this state of things cannot be denied. But it lies in the ratio between one and seventy million: the ratio is small, but it exists. I don’t think I can shirk my responsibility but I believe I have paid off my debt with the sacrifice of my life. There is no need to discuss matters of honor. Don’t forget me so soon”.

There is the disillusioned believer: “I looked for God in every pit, in every destroyed house, in every corner, in every room of mine, when I was in the trenches, and in the sky. God didn’t show himself when my heart cried out to him. The houses were destroyed, the comrades were as heroic or as cowardly as I was, there was hunger and murder on earth, and bombs and fire fell from the sky. Only God was not there. No, father, there is no God. I write it again, and I know it is a terrible thing and for me irreparable. And if he really must be a God, he is alone with you, in the books of Psalms and in the prayers, in the pious words of priests and shepherds, in the ringing of bells and in the perfume of incense. But in Stalingrad, no”.

Who tries to reassure: “I intend to give up my license in February or March”.

There is the lucid resignation of the end of the path: “It really doesn’t take any visionary talent to predict the end. How it will be, you will never know”.

As I always do, I marked the place and date of the reading on my book. Last letters from Stalingrad I read it twice: “Paris February 1997” and “Kiev February 2008”. That time I went there on a mission, they were enthusiastic pro-Europeans, Kiev was a splendid and open city.

I would never have thought that in a few years the last letters or posts of the Russian conscripts, of the heroic Ukrainian resisters, of the inhabitants of Mariupol or Kiev will be published among new rubble.

This is war: a journey that never ends, to which one always returns and from which one never returns.

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