Che cosa cambierebbe se iniziassimo a concepire la disabilità non come una tragedia personale, l’effetto di una mancanza fisica o mentale, ma, piuttosto, come l’esito di un’organizzazione sociale che privilegia determinati modelli di esistenza – quelli considerati abili – a discapito di altri?

Se provassimo a dare spazio, accanto all’onnipresente voce degli specialisti medici, alle idee, agli argomenti e alle rivendicazioni dei soggetti direttamente interessati al tema, ossia di coloro che con le disabilità fanno i conti ogni giorno in prima persona?

La pubblicazione dell’edizione italiana di The Politics of Disablement di Michael Oliver (Le politiche della disabilitazione. Il modello sociale della disabilità, traduzione a cura di Enrico Valtellina, ombre corte 2023), colma una lacuna significativa nel dibattito nostrano sui Disability Studies.

Il modello sociale della disabilità, infatti, ha segnato oltre trent’anni fa (il libro è del 1990) una svolta nell’attivismo e nella produzione teorica sulla disabilità nei Paesi anglofoni, in un campo dominato dal modello medico, che vedeva nelle disabilità delle patologie da curare, e dal modello caritativo, di matrice cristiana.

Il cambio di paradigma

Il libro Le politiche della disabilitazione, fin dal titolo, promuove un decisivo cambio di paradigma che trae le sue origini dall’attivismo praticato dalle persone disabili, e in particolare dal lavoro della UPIAS (Unione delle persone disabili contro la segregazione). Troviamo, in nuce, la sostanza di questa svolta nei Principles of Disability a cura della UPIAS:

“dal nostro punto di vista, è la società che disabilita le persone con una problematica fisica (impairment). La disabilità è qualcosa di imposto sopra i nostri deficit, attraverso il modo in cui siamo isolati ed esclusi senza necessità dalla piena partecipazione alla società. Le persone disabili sono pertanto un gruppo sociale oppresso”.


Muovendo da presupposti marxisti, con un particolare riferimento a Gramsci, Michael Oliver è in grado di articolare una visione della disabilità autenticamente intersezionale, poiché l’oppressione sull’asse della disabilità viene sempre analizzata tenendo presenti gli assi di genere, razza e classe.

Disabilitare o disabilizzare assume una doppia connotazione: oppressione materiale di una minoranza (peraltro molto ampia e dai contorni giocoforza sfumati) e diffusione di una cultura che oggi definiremmo abilista.

L’autore conduce quindi gli studi sulla disabilità e l’attivismo per i diritti attraverso un percorso che inizia con la ridefinizione dei termini della questione, a partire dalla consapevolezza che la questione non è stata definita daə direttə interessatə. Questa spinta alla ridefinizione si è manifestata in primo luogo con la distinzione, operata proprio dalle persone disabili, fra impairment e disability:

“Menomazione (impairment): mancanza di una parte o di tutto un arto, o avente un arto, un organo o un meccanismo del corpo difettoso.
Disabilità (disability): lo svantaggio o la limitazione all’attività causata da un’organizzazione sociale contemporanea che non tiene conto o tiene poco conto delle persone che hanno menomazioni fisiche, e quindi le esclude da molte attività sociali accessibili a persone senza menomazione”

Se adottiamo questo frame interpretativo, la visione stessa del problema dell’accessibilità, che tanta fortuna sembra riscuotere nel dibattito pubblico, diventa più radicale. L’attivista e artista disabile e antispecista Sunaura Taylor ha illustrato in modo molto chiaro tale aspetto nel suo Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale:

“Si consideri l’esempio banale dei nostri spostamenti quotidiani in città e paesi, che implica entrare e uscire dagli edifici, superare i marciapiedi, salire sugli autobus. Se una persona non riesce a superare il bordo del marciapiede, questo fatto marginalizzante è colpa del suo corpo? Che dire di un autobus dotato di scale, ma non di rampa o pedana? E delle luci di attraversamento che segnalano visivamente che è sicuro attraversare la strada, ma non emettono segnali acustici di alcun tipo? L’abilismo ci incoraggia a identificare una tecnologia come normale, e un’altra come specializzata. Siamo talmente abituati a tecnologie e strutture come gradini e scale che li consideriamo quasi naturali. Ma i cordoli non sono più naturali dei marciapiedi provvisti di scivolo, e le luci lampeggianti non sono più naturali dei segnali acustici”.

Le nuove domande poste da Michael Oliver


Il ribaltamento di prospettiva consente a Michael Oliver di porre una straordinaria serie di quesiti estremamente fecondi. Il concetto di disabilità è sempre esistito? Può essere considerato universale?

Al di fuori del capitalismo, in che modo le diverse organizzazioni sociali hanno trattato le persone disabili? Che rapporti ci sono fra capitalismo e discriminazione delle persone disabili? Che potenzialità ha lo sviluppo di movimenti animati da persone disabili?

La quantità di spunti, di elementi di analisi e di ridefinizioni della questione della disabilità fanno del libro di Michael Oliver un caposaldo dei Disability Studies, o meglio ancora dei Critical Disability Studies, elaborazione teorica delle persone disabili per le persone disabili.

Una svolta che in Italia fatica a darsi, a prendere forma, in un Paese in cui il modello medico è ancora egemone e la voce delle persone disabili è troppo spesso mediata dalle istituzioni, dai familiari o dalla medicina patologizzante, un Paese in cui tuttavia non mancano segnali promettenti, come, ad esempio, la presa di parola della comunità autistica o la nascita di collettivi che hanno saputo fare dell’inclusione un problema sociale generale e una rivendicazione non pietistica.

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