All’università ho avuto una bravissima docente di letteratura contemporanea, che è riuscita a farmi capire e quindi apprezzare e poi amare Italo Svevo e che ha dedicato la quasi totalità delle 45 ore del suo corso a parlare di Zeno Cosini, il più inetto di tutta la letteratura e il più bugiardo dei narratori.

Da allora, ogni volta in cui mi trovo a leggere un romanzo in prima persona, un po’ per deformazione accademica, la prima cosa che cerco di capire è se chi parla stia mentendo. Quando ho cominciato a leggere Il mio anno di riposo e oblio,  come un cane da tartufo, ho cercato di annusare le bugie, di sentire la scia delle menzogne. 

Non ne ho trovate.
Quando chiarisce che quello sarà il suo anno di riposo e oblio, la protagonista vi dice due verità: un anno è il tempo che si darà per dormire e il riposo sarà l’obiettivo.
La protagonista, di cui non sapremo mai il nome, è una bella, magra, ricca, giovane donna newyorkese, che ha perso entrambi i genitori e che pare non conoscere che forme d’amore complicate e mai del tutto sane: né l’amore di un genitore, né quello di un altro

Decide di ibernarsi, allo scopo di preservarsi: vuole dormire per non morire, vuole rallentare, fermarsi quasi completamente, per poi ripartire con minor peso. All’inizio prende in maniera quasi del tutto casuale trazodone, Ambien, Nembutal, compie un tentativo disordinato per dormire il maggior numero di ore, eppure si sveglia solo più confusa e angosciata. I ricordi non svaniscono, il sonno funziona con grave difficoltà.

Poi si organizza e in questo suo progettare c’è tutto il desiderio di vivere che le serve e le basta. 

Questa giovane donna vuole solo scomparire e ricomparire in una forma nuova ed essere finalmente perfettamente sveglia. Chiunque veda in lei tentativi meramente masochisti, chi sia convinto che voglia morire non dà abbastanza peso alla sua paura: la paura dell’odore del gas è paura di morire e non svegliarsi più. Le costano fatica gli stimoli intellettuali, i ricordi sono faticosi, eppure desidera vivere, senza il peso di dolori che impediscono ogni passo, che  ostacolano ogni scelta, che sbarrano le emozioni.

Ottessa Moshfegh ha raccontato di una giovane che desidera solo dormire e che, però,  mai potremmo definire pigra, svogliata, sfaticata: Moshfegh  compie il miracolo della letteratura. 

La protagonista del romanzo diventa un monumentum : ha il coraggio di non saper affrontare ciò che le accade, ha la forza di non nascondersi nell’approvazione degli altri o nella loro compagnia. Certo è spaventosa la sua solitudine, ma è incredibile la sua perseveranza, la sua dedizione alla ricerca di una vita nuova: svuotando, rallentando, togliendo. 

Il romanzo (ed. Feltrinelli in Italia) ha un titolo italiano diverso dall’originale. My year of rest and relaxation: nel titolo inglese c’è un’endiadi che in italiano si perde. Eppure, anche se i più ortodossi non saranno d’accordo, io ho apprezzato molto questa scelta. In ogni traduzione si perde qualcosa, è nella natura stessa della traduzione, ma ho imparato che a volte l’importante è solo compensare, senza tradire troppo le intenzioni. Il mio anno di riposo e oblio. L’endiadi è compensata dalla promessa che fa la protagonista: riposare per dimenticare. 

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