Tutta colpa di Emily Brontë. E di un vecchio 45 giri: se Cime Tempestose avesse una voce, sarebbe quella di Kate Bush. Se Catherine avesse un volto, sarebbe sempre il suo, occhi grandi e spalancati, capelli mossi e la fisicità nervosa. Con il suo temperamento, appuntito ma garbato. Alla sua disperazione, unirebbe la grazia e il tormento dei suoi gesti. Perché, oltre a un suono acuto e affascinante, dall’estensione esagerata, Kate Bush, nelle sue (video)esibizioni, non solo canta: balla.

Ne riscrive le battute, ne interpreta i movimenti, li reitera, ne assorbe la rabbia, la canalizza e, in ultimo, butta fuori la voce: Wuthering Heights (1978) è drammaturgia del movimento. Attraverso la riscrittura scenica del romanzo, empatizza e comunica tutta la squilibrata frenesia di Kate-rine (nomen omen), modula le espressioni, canta e si trasforma davvero nel fantasma geloso di quel personaggio, danzando una delle suppliche più belle e disperate della letteratura e della musica. Kate Bush intervalla forza e delicatezza, evoca suggestioni e, nel rifacimento di uno schema ben preciso ma fluido, viviseziona i gesti. Ipnotizza, attrae, allunga le mani e cattura. Il vestito bianco si muove al ritmo del suo potente inconsolabile sconforto mentre testa, braccia e gambe accompagnano le rotazioni, uguali ma vitali. Illuminata da un fascio di luce, resta eterea e ultraterrena.

Timida molto audace, la canterebbe Battisti. Una selvaggia, quando comincia a ballare, aggiungerebbe Kemp. Kate Bush è anche una Babooshka (1980) a intermittenza, che accende e spegne compulsivamente il suo dualismo magico: calma nelle strofe, folle nel ritornello, gioca a nascondino con il suo alter ego, vestita prima con una tutina nera, casta e coprente, poi con un body metallico, scosciato e elettrizzante. È scattosa e ammaliante, prepotente, aggraziata, elegante: balla, discute, seduce. Suona e rivolta il contrabbasso. Lo pizzica, lo provoca. Dà vita agli oggetti inanimati, allenta le corde più rigide per poi tenderle ancora e in un’unica performance cambia d’umore, senza preoccuparsi mai, dando forma alle sue due – centomila – sfaccettature.

Che ci sia una perfetta corrispondenza tra musica, parole e movimento, Running Up That Hill (1985) lo conferma. L’amore è una danza a ostacoli, un turbinio di emozioni che travolge, intontisce, scombussola. È accarezzarsi per poi scacciarsi, per poi accarezzarsi ancora, è un ballo che alterna paura, desiderio – desiderio, paura e ritorno. Kate Bush, insieme a Michael Hervieu, vestiti con due ampi hakama giapponesi grigi, attinge alla danza contemporanea, tutta rintracciabile nell’interpretazione di quel gesto ripetuto del tendere un arco, pronto a scoccare una freccia. Un ballo simbolo delle contraddizioni amorose e, in fin dei conti, della vita.

Ha imparato e danzato con Lindsay Kemp, suo maestro di movimento e poi coreografo di The Red Shoes (1993), breve film musicale: insieme, raccontano di quella donna che appena indossa un paio di scarpe rosse, fatate, balla e non smette più. Balla da sola, e poi ancora con un contrabbasso. Ha cantato con Peter Gabriel e duettato con ognuna delle sue contraddizioni, non combattendo la sua natura ma assecondandola, confermandosi vera cantatrice: cantante, attrice, danzatrice. Incantatrice. 

La voce – e il corpo – nella tempesta sarebbe proprio la sua. Heathcliff, invece, siamo noi, pronti ad aprire quella finestra, farla entrare e… farci strappare via l’anima.

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