Leggo la notizia e non riesco a capacitarmene. Forse perché è difficile associare chi comune mortale non è – appunto – alla morte. Perché gli artisti no, non sono comuni mortali: gli artisti esprimono qualcosa che trascende la finitezza, rappresenta assoluti, simboli, archetipi: sono portatori di messaggi e significati. Difficili pensarli in carne ed ossa, con il rischio della vita sulle spalle, proprio come noi altri.

Libero Di Rienzo, in particolare, per me era super sexy, con quella voce strana, quegli occhi malinconici, quel suo essere partigiano dentro sempre, in qualunque interpretazione. Ci sono, no, attori e attrici che ci risuonano particolarmente. A me, ad esempio, sembra di conoscere da sempre Javier Bardem, Cate Blanchett, Marco Giallini, Pierfrancesco Favino, Casey Affleck, Valeria Golino, Susan Sarandon, Timothée Chalamet, Eddie Redmayne. E anche Libero Di Rienzo.

Mi sento male a pensare ai suoi due figli, due e sei anni, un po’ come la mia, di figlia. E a sua moglie, la costumista Marcella Mosca. Quarantaquattro anni sono davvero pochi per morire, caxxo. Chissà quante cose ancora aveva da dire, da fare, quanto amore ancora da dare, quante strade da indicare a tuttə noi. Leggo il necessario sugli altri giornali, particolari di ogni tipo, sulla sua carriera, sulle cause della morte, sulla sua famiglia, sui riconoscimenti. Qui voglio omaggiare Libero Di Rienzo invitando i miei lettori a guardare il suo unico film da regista, vincitore del Ciak d’Oro: Sangue – La morte non esiste.

Presentato al Festival di Locarno 2005 nella sezione Cineasti del presente, è stato distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 5 maggio 2006. Il film è incentrato sul rapporto tra un fratello e una sorella venticinquenni, fino ad arrivare all’incesto. Un film duro e drammatico, naturalmente partigiano, in cui si sente la sua voce, quella di Libero, il suo timbro, la sua visione, la sua posizione nel mondo. Anche leggera e comica.

Siamo vicino Torino: fratello e sorella partecipano ad un rave party durante il quale Stella, presa dalla rabbia, fa presente a Iuri di aver deciso di partire per gli Stati Uniti. Lui sente franare l’unico rapporto che possiede e precipita in tutte le paure che continuamente lo assalgono, prima tra tutte la paura della morte. Il rave diventa a questo punto il loro “viaggio”, tra droga e musica elettronica, santoni mistici e visioni lisergiche. All’alba irrompe la polizia: in auto trovano un tale di nome Bruno, entrato furtivamente in cerca di cibo, e tutti e tre si nascondono in una chiesa dove incontrano un prete neofascista che deve celebrare un rito funebre con carabinieri in uniforme ufficiale. Il resto sarebbe spoiler.

Il lungometraggio, interpretato da un altro partigiano, Elio Germano, e l’artista visiva Emanuela Barilozzi, è un’opera di ricerca, decisamente fuori dagli schemi classici della filmografia commerciale. I 104 minuti, infatti, creano un’efficace contro-narrazione attraverso tre atti, come a teatro: tre grammatiche differenti a cui corrispondono tre tecniche stilistiche. Il primo e secondo atto si concentrano sulla psicologia dei due protagonisti, Stella e Iuri, mentre il terzo vede l’ingresso in scena di Bruno e l’epilogo è decisamente comico, altro tratto tipico del carattere di Libero.

Vale la pena salutare la partenza di un attore straordinario (Premio Donatello 2002 per Santa Maradona) guardando questa sua fatica, prodotta con soli 480.000 euro, a cui Libero di Rienzo tanto teneva, e riconoscerlo per l’arte che aveva in sè e che in quest’opera emerge netta attraverso inquadrature insolite, effetti di luce sperimentali (da segmenti bui a scene completamente bianche), ed un uso atipico del sonoro (diverso per ognuno dei tre atti).

Ciao ragazzo, ci rivediamo nella prossima vita.

Foto di copertina presa da qui.

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