Guai anticipare i tempi: Guido Morselli e la disperazione di sentirsi soli
Quando Guido Morselli scrive il suo ultimo romanzo annuncerà il suo suicidio imminente. Ecco uno scrittore outsider per ogni epoca.
Quando Guido Morselli scrive il suo ultimo romanzo annuncerà il suo suicidio imminente. Ecco uno scrittore outsider per ogni epoca.
(English translation below)
Vi siete mai sentiti disperatamente soli? Intendo quel tipo di solitudine di quando ci si rende conto che la comunità nella quale si è inseriti non condivide il concetto di essere umano e di benessere in cui voi credete. Vi è mai capitato? Scommetto che molti eco-attivisti sanno di cosa sto parlando, specie quelli appartenenti a nazioni, come l’Italia, dove si fa ancora troppa confusione nel dibattito pubblico a proposito di ecologia, inquinamento e cambiamento climatico—di conseguenza scarsa è la rappresentanza green in politica. Ecco, oggi parliamo di uno scrittore che ha anticipato i tempi e si è ritrovato solo.
L’Italia ha avuto la sua rivoluzione industriale relativamente tardi rispetto al Regno Unito o alla Francia. 1958-1968: questi sono gli anni effettivi. Dieci anni frenetici che hanno visto la fine del mondo contadino e un rimodellamento di ogni aspetto della società alla luce del progresso – e del consumismo. Poche voci si sono levate a scongiurare questa transizione: la vita rurale che ci si lasciava alle spalle era così misera che il progresso, che la superava in toto, doveva avvenire a qualunque costo. L’ideale condiviso era che un’economia basata sui settori secondario e terziario seguita da una rivoluzione delle tecniche agricole, potesse garantire felicità e prosperità per tutti. I comunisti differivano sul come gestire l’industrializzazione (contro il capitale nelle mani di pochi) e combattevano per equità e condizioni migliori per la classe operaia, tuttavia non avevano nulla da obiettare al principio che il progresso industriale fosse imprescindibilmente buono e necessario.
Oggi giorno i danni ambientali e culturali fatti in quel particolare periodo li conosciamo e al contempo siamo come intrappolati nel ciclo di un sistema di crescita perpetua che non fa più pari con il consumo e mette in pericolo il pianeta. Eppure, l’opinione di chi difende il progresso industriale ponendolo sopra ogni cosa – ambiente incluso – è ancora piuttosto accettata e capita spesso di sentirla al di fuori della ristretta cerchia degli attivisti. Chi la sostiene ha spesso molti timori: perdere il lavoro, ricadere nel mondo rurale dei nostri nonni, peggiorare il proprio standard di vita per non parlare del sospetto che questa faccenda del clima non sia altro che l’ennesima moda del capitalismo. Manca un’educazione ecologica tale da far salire, in mezzo a queste, la paura di rendere la terra inabitabile. Come può un attivista non sentirsi solo, mi chiedo?
All’inizio degli anni Settanta qualcuno si risvegliò dall’euforia capitalistica da cui viene la società di oggi. Per Pasolini, per citare il più lucido (e isolato) critico di ciò che definì genocidio culturale (cioè quel che l’industrializzazione-lampo ha fatto ai valori e alla mentalità delle persone), il risveglio fu un incubo. Dovette fermarsi e cercare di decifrare il presente, tra la perdita di ecosistemi (le lucciole), la perdita di valori (il senso del sacro) e il modello borghese livellante che omologa e tramuta uomo e donna medi in consumisti meglio di quanto mai abbia fatto il fascismo imponendo retorica patria e Duce. L’incubo di Pasolini andò oltre quando il poeta scoprì che parlare dei danni causati dall’industrializzazione-lampo, oltre a una chiara dichiarazione contro la classe dirigente, era qualcosa di difficile da capire perfino dai suoi amici intellettuali di sinistra che ne discutevano con lui sulla sua rubrica, gli Scritti Corsari. Impersonava Cassandra, la profetessa non creduta. Tuttavia la sua voce, quarantacinque anni dopo la sua morte, risuona chiara e forte attraverso il nuovo millennio.
Nel frattempo, mentre Pasolini scriveva sul Corriere, Guido Morselli fronteggiava la sua solitudine, incassava i molti rifiuti editoriali e architettava il suo suicidio. È interessante notare come nessuno dei due sia uscito vivo dagli anni Settanta. Da intellettuale, Guido Morselli è stato spesso frainteso: anche la bella mente aperta di Calvino ha interpretato male il tono poco realistico del suo romanzo Il comunista. Ciò che lo interessava in letteratura era piegare la realtà, lasciare entrare la soggettività, il subconscio, i ricordi (in maniera proustiana) e la complessità dell’esperienza. Inoltre, era rimasto molto colpito da Leopardi e dal Walden di Thoreau, poi divenuto uno dei capisaldi del canone ecocritico. Nelle sue esigenze letterarie era andato oltre il realismo sociale, il codice da usare per essere ascoltati in letteratura italiana dalla fine della guerra in poi. I rappresentanti dell’altro codice accettato, la letteratura d’avanguardia, invece non lo volevano perché era troppo intellegibile, troppo narrativo. Controcorrente di sicuro lo era. Gli veniva naturale non come studiata presa di posizione politica, ma come emergenza esistenziale. Ciò non significa che non si tenesse aggiornato o che non cercasse un dialogo con la politica attiva o il mondo intellettuale. Tuttavia sperimentò quanto fosse difficile comunicare il proprio senso di disagio verso aspetti del presente che tutti sembravano approvare.
Pontiggia scrive nella prefazione al Diario di Guido Morselli che a suo avviso i manoscritti dello scrittore venivano continuamente rifiutati come conseguenza della sua solitudine. “Guai anticipare i tempi in letteratura”, scrive Pontiggia, “la contemporaneità se ne vendica”.
Dissipatio H. G. è l’ultimo romanzo scritto da Guido Morselli, testamento e anticipazione del proprio suicidio. Il personaggio principale, che parla in prima persona, prende la pistola e va via di casa per togliersi la vita. Poi ci ripensa, torna in città e scopre che tutte le persone sono scomparse. Il resto del libro non è altro che un lungo e inquietante monologo dello stesso personaggio che si chiede cosa sia successo e scopre che gli esseri umani non sono scomparsi solo nella sua città, Crisopoli (Città dell’oro, letteralmente), ma nel mondo intero. L’unico essere umano che gli appare è il fantasma di un dottore compassionevole, Karpinski, incontrato in una clinica dove lui era stato curato per un esaurimento nervoso – il dottore però era stato pugnalato da alcuni colleghi subito dopo la sua degenza. Karpinski è l’unico esempio di humanitas a cui il protagonista riesce a pensare mentre si chiede perché proprio lui, sociopatico e desideroso di morire, sia diventato l’ultimo umano sulla terra. Tuttavia, gli animali, le piante e le cose sono esattamente come li ha lasciati. Allora si siede su una panchina e aspetta il dottore morto. Solo, attende Godot.
Guido Morselli mette in scena la sua alienazione descrivendo sia la sua esperienza di outsider in vita sia un possibile risvolto della sua prossima morte. Passato, presente e futuro convivono insieme congelando e dilatando il tempo. Le persone hanno perso ciò che le rendeva umane e sono diventate qualcos’altro di incomprensibile, invisibile e inaccettabile per il protagonista che comunque desidera ardentemente la presenza dell’unico essere umano compassionevole che ha conosciuto. O, meglio, desidera una dimensione perduta, che in passato è esistita, nella quale non si sentiva isolato a causa del suo essere differente – purtroppo differente lo è diventato per coerenza e senso critico spiccato e né può né vuole tornare indietro.
L’ambiente si erge come personaggio: un personaggio silenzioso e misterioso che porta le tracce degli esseri umani ma esiste nonostante loro ed è quasi felice che se ne siano andati. Come in The Last Man di Mary Shelley, gli umani non ci sono più ma la vita continua. Anzi, la banca centrale di Crisopoli (basata su Zurigo e simbolo del capitalismo) è più bella con le cicorie che irrompono spuntando attraverso il pavimento. In un romanzo precedente, Un dramma borghese, uno dei personaggi di Guido Morselli afferma di non proiettare se stesso nel paesaggio ma è il paesaggio che proietta se stesso su di lui: nel vedere una montagna, gli viene freddo. In Dissipatio H.G. in maniera simile il protagonista si arrampica su una montagna per cercare significati umani (l’antico, favoloso pavor montium) ma non trova nulla. Una montagna è una montagna: qualcosa a tratti indecifrabile nel suo essere altro. Con questo atteggiamento, Guido Morselli mette in discussione l’antropocentrismo e sfiora la Object-Oriented Ontology, la filosofia secondo la quale gli oggetti (a contrario di Kant) esistono indipendentemente dalla mente umana e dalla soggettività.
Isolamento, rifiuto dell’antropocentrismo, rifiuto del capitalismo, dissoluzione dell’humanitas e (in Il comunista) rifiuto dell’illusione ideologica dell’altrove perfetto (la Russia) che una volta conosciuto bene non è così perfetto. Scommetto che Guido Morselli sarebbe riuscito a essere un outsider anche se fosse vissuto oggi. Ciò che resta, la minuscola pars construens, è la disperata (leopardiana) ricerca di amore, compassione, comprensione, senso di fratellanza.
ENGLISH VERSION
Did you ever feel hopelessly alone? I mean, the type of loneliness that comes when one realizes that one’s community does not share the concepts of “being human” and “well-being” one believes in, did it ever occurred to you? I bet many eco-activists know what I am talking about, particularly those belonging to nations, like Italy, where there’s still too much confusion about ecology, pollution, and climate change—and scarce eco-political representation in consequence. Very well, today we talk about a writer so ahead of his time that he found himself desperately alone.
Italy had its industrial revolution quite late if compared to the United Kingdom or to France. The years are 1958 – 1968, ten frantic years that saw the end of the rural world and a total reshaping of every aspect of life in the light of progress—and consumerism. Few voices rose against this process. Rural life, as experienced in the XIX century and early XX, was so miserable that the progresso, that overcame it, had to happen no matter what. The shared ideal was that an economy based on the secondary and tertiary sectors, followed by a total revolution of agricultural techniques, could guarantee happiness and prosperity for everyone. Communists didn’t agree on industrialization’s management (the capital in the hands of few) and fought for better conditions and equality for the working class. Yet, they had nothing against the implication that industrial progress was in any case good and necessary. Now we know it isn’t quite so, and yet we are kind of trapped into the loop of perpetual economic growth, which is no more sustainable. Yet this 60s view is still rather accepted in the public opinion and it often happens to hear it outside the small circle of activists. Those who share it often have many anxieties about the future: fear of losing jobs, of relapsing into the rural world of our grandparents, of diminishing life standards not to mention the fear that this climate thing is the next cool, fashionable idea of capitalism. No fears about Earth risking to become uninhabitable: that’s indeed the result of the lack of eco-education. How can an eco-activist not feel alone, I wonder?
In the early Seventies, someone woke up from the capitalistic euphoria on which is based the society we still live in. To Pasolini, to mention the most lucid (and isolated) critic of what he defined “genocidio culturale” (“cultural genocide”, that is what high-speed industrialization did to people’s values and mindset), waking up was a nightmare. He had to stop and take the time to make some sense between loss of eco-systems (the disappearance of the fireflies), loss of values (the sense of the sacred), and the leveling bourgeois model that uniforms average people into consumerists and does it better than fascism ever did with imposing Fatherland rhetoric and the Duce. Pasolini’s nightmare grew when the poet also discovered that speaking out loud about the damages caused by high-speed industrialization was not only a clear statement against the establishment but also something hard to understand by his intellectual left-wing friends that argued with him on the columns of the newspaper Il Corriere della Sera. He was playing the role of Cassandra, the prophet that never is believed. Yet, forty-five years after his death, his voice, loud and clear, resounds through the new millennium.
In the meantime, when Pasolini was writing on his column entitled Scritti Corsari, Guido Morselli was taking his share of loneliness, counting his rejected manuscripts, and finally planning his suicide. It’s interesting to remark that neither of them got out of the Seventies alive. As an intellectual, they often misunderstood Morselli: even the open-minded Calvino misread the unrealistic tone of his Il comunista. Bending reality, letting in subjectivity, the subconscious, memories (after Proust), and the complexity of experience interested him. Plus, Leopardi and Thoreau’s Walden impressed him very much, the latter being nowadays a classic of ecocritical canon. He went beyond social realism, the code one has to use if he wants to be listened to in the Italian literature context since the end of Second World War. Avant-garde literature, inspired by Adorno’s ideas, on the other hand, didn’t include Morselli as he was too narrative, not obscure enough—decadent. Upstream, he was. It came naturally to him, not as a political stance, but as an existential emergency. That doesn’t mean he wasn’t keeping update with the present or he did not try to establish a dialogue with active politics or the intellectual world. Yet, he experienced how hard is to communicate his all-pervasive sense of discomfort towards aspects of it that everyone seemed to approve of.
Pontiggia wrote in the preface of Morselli’s Diary that in his opinion his manuscripts were rejected because he was alone. “Woe to who is ahead of one’s time, in literature”, Pontiggia warns, “the contemporary world will soon get its revenge”.
Dissipatio H. G. is the last novel Morselli wrote, his testament and an anticipation of his suicide. The protagonist who speaks in the first person takes his gun and leaves his home intending to take his own life. He finally desists his purpose, but when he comes back to his own town, all the people disappeared. The book is basically a long, creepy monologue of him wondering what happened and discovering that human beings are not only vanished in his town Crisopolis (“Golden City”, literally) but in the entire world. The only human being that appears to him is the ghost of a doctor, Karpinski, a compassionate soul he met in a clinic where he went after a nervous breakdown – stabbed right after his stay by some colleagues. Karpinski is the only glimpse of humanitas he can think of, and in the meantime, he wonders why he, a sociopath desiring death, is the last man on earth. Yet, animals and plants and things are exactly as he left them. So, in the end, he sits on a bench and waits for Karpinski to save him. He is alone, waiting for Godot.
Morselli dramatizes his alienation, describing both his experience as an outsider and a possible vision of his life after death. Past, present, and future co-habit together, freezing and dilating time. People lost their humanitas and became something else incomprehensible, invisible, and unacceptable to the protagonist that nonetheless longs for the only caring human being he knew. Or, better, he longs for a lost dimension that has been there in the past where he wasn’t feeling isolated for being different—but he is different in virtue of his critic sense and his coherence and he can’t help it.
The environment stands up as a character: a silent, mysterious character that carries the traces of human beings but exists in spite of them, and it’s almost happy that they are gone. As in Mary Shelley’s The Last Man, the extinction of our species doesn’t mean the end of life: on the contrary, Crisopolis’s central bank (based on Zurich and symbol of capitalism) is beautiful with chicory pushing under the pavement. Previously in his Un dramma Borghese, one of Morselli’s characters states that he does not project himself and his feelings on the landscape, but it’s the landscape that project itself on his feelings: watching a mountain he feels cold. In Dissipatio H. G. the protagonist climbs up a mountain to look for human meanings (“l’antico, favoloso pavor montium”) applied to the landscapes: but he founds nothing. A mountain is a mountain, something almost undecipherable in its slippery otherness. Through this attitude anthropocentrism is in discussion: Morselli almost anticipates the Object-Oriented Ontology. His objects (in Kantian sense) indeed exist independently from the human mind and subjectivity.
Isolation, loneliness, refusal of anthropocentrism, refusal of capitalism, awareness of the risk of dissolution of humanitas, and (in Il comunista) a refusal of the ideological illusion of the perfect place elsewhere (Russia) that loses its perfection once one gets to know it. I bet Morselli would still be an outsider if he were to live nowadays. What’s left, the tiny construens part, is the desperate (Leopardi inspired) search for love, compassion, understanding, sense of brotherhood.