“Sono tailandese ma dallo spirito globale, sono stato creato durante l’inizio della pandemia e avrò per sempre diciassette anni”, sono le parole di Bangkok Naughty Boo, primo cyber influencer in Thailandia e il primo cyber influencer non binario.

Per creare Naughty Boo, capelli al neon, pelle praticamente perfetta, androgino e decisamente eccentrico, ci sono volute sei persone: la piattaforma visiva e sonora Shapes Shifter ha affrontato tutte le sfide tecniche e di post-produzione, mentre la parte creativa (lo stilista è Adisak Jirasakkasem) porta la firma di IWANNABANGKOK, una community di giovani creatori che lavorano con artisti e creativi locali.

Ma Naughty Boo racchiude anche messaggi sociali importanti come il desiderio di costruire un futuro senza distinzioni di genere ed offre un’immagine della capitale thailandese più moderna, inclusiva e progressista.

Quando sono nati i virtual influencer

L’influencer marketing nasce come settore dedicato in maniera esclusiva alla capacità persuasiva e commerciale di soggetti considerati come potenti creatori di relazioni sociali, che le aziende con cui collaborano tendono a sfruttare, dietro compenso, per raggiungere i propri obiettivi di marketing e, quindi, di vendita.

L’origine degli influencer virtuali, o CGI Influencer (Computer-Generated Imagery Influencer), risale al 2016, in Asia, dove ad oggi spopolano a tal punto che le creazioni di intelligenza artificiale hanno generato un mercato pari, secondo le stime di Statista, a quasi 14 miliardi di dollari nell’anno 2021. Gli influencer virtuali sono da considerarsi come un modo unico e nuovo per creare engagement per un audience sempre più interessata da contenuti accompagnati dall’effetto wow.

Sono giovani, trendy, conquistano la stampa e i brand ed hanno un tasso di engagement invidiabile. Sono personaggi che hanno caratteristiche fisionomiche e comportamentali che simulano le persone in carne ed ossa. Vengono creati da programmatori esperti in grafica computerizzata (CGI) e, in alcuni casi, animati grazie a tecniche di intelligenza artificiale che permettono loro di interagire in linguaggio naturale.

Sempre nel 2016 una società di Los Angeles, specializzata in robotica ed intelligenza artificiale, dal nome Brud creò Miquela Sousa, una ragazza virtuale di giovane età appassionata di musica e moda. Questo personaggio, ideato come uno strumento di marketing, ad oggi vanta collaborazioni con brand del calibro di Gucci, Prada e Calvin Klein ed ha un seguito che ammonta a 2,8 milioni di followers solo su Instagram.

Ma la sua fama non si ferma al virtuale: oltre ai marchi di moda, Lil Miquela è stata oggetto di interviste da parte di Vogue, The Guardian e Buzzfeed ed è stata inoltre raffigurata assieme a celebrità come Diplo e J Balvin, quest’ultimo presente in un IGTV della stessa influencer virtuale.

Shudu è invece la virtual influencer di colore più nota al mondo. E’ stata creata da The Digitals, un’agenzia americana di modelle digitali. Anche lei ha lavorato per top brand come Vogue, Chanel, Bulgari.

Da uno studio dell’Inflead, effettuato in collaborazione con l’Università di Monaco, che ha coinvolto un ampio numero di followers nel campo della moda e dello spettacolo, è emerso che ben il 56% degli intervistati considera i biodigital influencer degli imprenditori che si guadagnano da vivere.

Ma il dato più interessante è stato ricavato dalla ricerca a supporto di questo studio: su un campione di oltre 400k followers ben il 97% rientra in una fascia di potenziali consumatori reali, solo il 3% quindi rientra nella fascia degli account inattivi o poco utilizzati (senza contare quindi un’assenza pressoché totale di fake followers).

Nello studio di Buzzoole L’influencer Marketing e l’inclusione sociale è emerso, poi, che nel 2020 gli influencer italiani hanno realizzato su Instagram il 78.3% dei contenuti relativi a temi come la libertà di scelta della propria identità sessuale, le diseguaglianze di genere, il razzismo, la rivendicazione della bellezza del corpo (body positivity) e la sensibilizzazione sulle disabilità.

La missione di Kami
e la sindrome di down

Di recente, ha stravolto l’ambiente digitale rendendolo una realtà inclusiva ed accogliente anche per gli utenti con sindrome di down.

È questa la missione di Kami, la prima virtual influencer al mondo affetta da trisomia del 21. Il disegno è nato dalla una selezione di 100 candidate scelte tra quelle iscritte al network globale della DSI, donne che convivono da sempre con la patologia e, per questo, considerate la fonte più accertata da cui prendere spunto per lavorare sulla fisicità, il carattere, la voce, i gesti e la personalità di Kami in un processo che, per metà si è servito delle abilità manuali e, per metà, delle potenzialità dell’algoritmo.

L’obiettivo del progetto, frutto di un accordo tra l’hub creativo svedese Forsman & Bodenfors, l’agenzia di modelle digitali di Singapore The Diigitals e la non profit Down Syndrome International (DSI) è quello di raccontare alla rete una disabilità non più vista come errore o, peggio, qualcosa che impedisce di vivere e lavorare. Inoltre, l’influencer virtuale vuole invitare i brand, il fashion system e la community online a rendere la rete uno spazio libero da pregiudizi, stereotipi, archiviando quei modelli di bellezza che, immuni al tempo che passa e ai cambiamenti che il corpo affronta, non sono altro che una falsità.

In linea generale, l’aspetto fisico dei virtual influencer è molto realistico e simulano una personalità e una routine quotidiana attraverso la pubblicazione costante di contenuti. Creano communities e ovviamente puntano a diventare testimonial dei top brand in diretta concorrenza con gli influencer reali.

In Italia la prima virtual influencer digitalmente imperfetta

Filippo Boschero, Laura Elicona e Luca Facchinetti, tre giovani startupper torinesi, hanno creato Nefele, la prima virtual influencer italiana. Imperfetta, con canoni estetici differenti e messaggi di inclusione.


Nefele è un nome greco e deriva dalla ninfa mitologica che, secondo il mito greco, Zeus avrebbe creato partendo da una nuvola. L’obiettivo era quello di porre le basi per un nuovo modello digitale che abbracciasse concetti di mancata omologazione ed inclusione.
È una genuinfluencer, anima green e ambassador dell’economia circolare.
Si fa portavoce di concetti di women empowerment e gender equality e si muove ed agisce senza il bisogno di un identificativo (lei, lui etc.). I pronomi personali non esistono, ciò che è rilevante è il noi, voi e loro.


“Il progetto Nefele è paragonabile a un esperimento sociale. Punto fermo è la consapevolezza che la diversità debba essere intesa come un particolare originale su cui soffermarsi e non da cui discostarsi. Nefele incarnerà perciò tutti quei valori che come società stiamo perdendo di vista, non avrà un target specifico, sarà rivolta a tutti e incarnerà più che mai e paradossalmente – essendo un soggetto creato digitalmente – la realtà”, hanno dichiarato i creatori.


Il messaggio è chiaro: portare i giovani, e non solo, ad affermare sé stessi, allontanandosi dai canoni e dagli stereotipi che l’ecosistema digitale tende a imporre come unica scelta possibile.

Dove non è arrivato l’essere umano da solo, sarà interessante osservare e immergerci in un mondo phigital dove inclusione, attivismo e diritti saranno raccontati, vissuti e rappresentati dai virtual influencer.

Purché ogni loro azione non rimanga confinata solo al metaverso ma coinvolga l’umano e possa realmente rivoluzionare il mondo del digitale nel segno dell’inclusività.
Dove l’essere umano ha fallito, può pensarci la tecnologia, guidata dall’uomo.

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