In un momento in cui il teatro è chiuso, lo spazio della reclusione assume una valenza davvero inedita per il Teatro stesso. Oggi incontriamo – con particolare piacere – Fabio Cavalli e Laura Andreini, responsabili delle attività a tema presso il carcere di Rebibbia.

Laura Andreini, fondatrice del Centro Studi e Archivio Storico “Enrico Maria Salerno”, vedova del grande Attore, autrice, attrice, regista, dirige i Laboratori teatrali di Rebibbia.

Fabio Cavalli, autore e regista teatrale e cinematografico, docente di Etica ed Estetica dell’Arte in Carcere presso il DAMS Roma Tre. Coautore di Cesare deve morire con i fratelli Taviani – Orso d’Oro al Festival di Berlino 2012.

Fabio Cavalli, che si definisce prima di tutto un filosofo: quale filosofia la anima, se potesse riassumere in un pensiero la sua attività all’interno del carcere di Rebibbia?
Al di là di una laurea e di qualche occasione di insegnamento, più che altro cerco di comprendere cosa accade alla mente delle persone quando incontrano la bellezza delle parole e delle immagini. Capire cosa succede su un palco, quando l’attore vive per qualche attimo la vita di un altro: il personaggio. Se l’attore è un detenuto, e quel detenuto, dopo un po’ di anni di teatro, torna in società e non ha più voglia di delinquere, ecco, lì mi domando come e perché si sia potuto liberare da tante catene, e che ruolo, in questo, abbia avuto il teatro. Io credo un ruolo fondamentale.

Rewriters ama le domande, lei ha posto questa per aprire il suo progetto Rebibbia Lockdown,  “Se il destino si presentasse a me nella forma di un virus sconosciuto, sarei ancora in tempo a chiudere il cerchio della mia vita?”. Ecco, quali risposte le ha dato? “Ridimensionare la propria spavalderia”, questo ha scritto un detenuto interrogato sulle conseguenze del virus, nella sua vita di uomo che ha sempre osato tanto e tanto perduto. Stanco di guardare  le proprie mani che invecchiano dietro le mura, nemmeno osa porsi  la domanda. Se la vita finisse ora, non avrebbe chiuso nessun cerchio. E non solo lui, pure io mi dico la stessa cosa. Forse per questo in tanti fanno finta che il virus non esista. Per forza:  chi ha davvero voglia di fare i conti con la brutale realtà? I poeti.

In questi giorni avete in opera progetti dedicati a Dante, quali sono e quale approccio privilegiato per avvicinare i detenuti  all’autore?
Il Carcere è un Inferno? I detenuti sono i dannati? E gli Agenti i diavoli? E se invece fosse un Purgatorio? Proprio al Canto I° Dante incontra Catone, un pagàno e per di più suicida, eppure è risparmiato dalla dannazione, ed è  prossimo a “riveder le stelle”. Perché? Perché Catone, nel suicidio cercò la “libertà ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta”. La libertà repubblicana, il libero arbitrio della coscienza, la liberazione di un condannato … quante cose significa la parola libertà? Lo chiediamo a Dante, anche utilizzando magnifiche traduzioni in lingue regionali, proposte da grandi poeti dei secoli passati.

Tra le complessità maggiori del suo lavoro lei mi cita a voce la relazione con la mafia, vuole darne cenno?  
Filippo, uno dei miei attori ergastolani, guarda dentro l’obiettivo della macchina da presa e dice quello che vuole dire: “Quando  cresci in un certo ambiente, dove il tuo riferimento ha un solo nome: Mafia, la libertà è soltanto un sentito dire. Poi quando ti accorgi che hai sacrificato tutto per una fantasia sbagliata, allora capisci cos’è questa libertà! Allora cominci ad averne diritto!”. Io da quasi venti anni ho relazioni costanti con persone che la pensano così, che la pensano al contrario di così, che fanno finta di crederci, oppure non possono dichiarare apertamente di crederci. Ho davanti tutti i gradi della complessità di un mondo che si fa troppo presto a giudicare.

Laura Andreini Salerno: la molla iniziale che l’ha spinta a questo lavoro?  
Per la mia generazione l’impegno politico era la spinta che sosteneva ogni scelta e ogni ispirazione e si fondava sulla volontà di agire nella prospettiva del miglioramento della società. L’incontro con mio marito, Enrico Maria Salerno, ha dato corpo ai miei ideali. In lui si integravano pienamente il grande artista e l’uomo politicamente impegnato nel portare avanti le istanze dei più deboli e così, dopo la sua scomparsa, è stato naturale continuare a seguire la traccia che aveva lasciato. Il teatro in carcere mi ha riportato alla radice di una scelta avvenuta tanti anni prima. In carcere il Teatro ha il valore della necessità, si spoglia di ogni forma di autoreferenzialità ed è lontano dai pericoli della sterile ripetitività e del narcisismo.

Con quali detenuti ha a che fare e come viene accolto il suo ruolo e il suo essere donna? Lavoro all’interno di un reparto maschile e ho a che fare con uomini di estrazione sociale, età, vissuto biografico molto eterogeneo. Per quanto diverse, le loro storie sono tuttavia accomunate da un dato: la sofferenza. Sono uomini dolenti, lacerati, sconfitti, oppressi da pensieri spesso ossessivi. La possibilità di una introspezione che porti alla consapevolezza dei meccanismi e dei condizionamenti mentali che hanno fatto deragliare le loro vite, è un’impresa non facile che gli strumenti del teatro possono aiutare ad affrontare. Il mio ruolo è quello di accompagnarli con dolcezza e fermezza lungo una strada piena di ostacoli e imprevisti. L’ascolto profondo e non giudicante è la chiave per costruire una relazione di fiducia che confluisca nella realizzazione dell’atto creativo catartico. L’essere donna aggiunge valore al percorso. La donna è generativa e quindi ha una naturale propensione alla cura. Una guida ferma e sorvegliata tiene lontano il pericolo di ogni identificazione in un femminile  da conquistare.

Quale è il pubblico che segue le vostre dirette e che relazione hanno i detenuti con gli spettatori?
La rappresentazione teatrale è un rito sancito dalla presenza degli attori e degli spettatori. Per i miei attori detenuti, il pubblico ha un doppio valore: oltre a quello della presenza, ha anche quello della testimonianza. Ogni persona che siede in platea per vedere lo spettacolo diventa lo sguardo che si posa su di loro con un’aspettativa benevola. Se alla fine sentono di avere mantenuto la promessa ed essersi conquistati il successo, fanno esperienza di un’emozione importante per il loro percorso: l’orgoglio di avere costruito insieme agli altri una cosa bella.

La generale reclusione del Teatro in forma ampia generata dal lockdown regala a mio parere al vostro lavoro uno sguardo di attualità ancora più incisivo, cosa ne pensa?
Il virus ci ha reso tutti detenuti ai domiciliari. Esperienza difficile ma estremamente formativa in quanto il valore della libertà a cui siamo abituati e che diamo per scontato, si è fatto sentire come un bisogno radicale della vita. Questa necessità di lontananza gli uni dagli altri, ha stimolato in molti la riflessione sulla detenzione vera. Evidente che le persone detenute sono in carcere per assolvere al debito contratto con la società, ma sono anche recluse per un percorso riabilitativo che offra loro una seconda opportunità. Il lavoro che da tanti anni svolgiamo in carcere oggi è visto con un’attenzione particolare.

Condividi: