Tutti abbiamo sentito parlare di consumo di suolo. È un concetto a molti familiare. Ma non è semplice spiegarne le implicazioni più delicate.

Cominciamo a inquadrarlo. La stessa definizione di consumo di suolo è ingannevole: lascia pensare all’erosione, per esempio a quella delle coste a favore del mare, ma – seppure esiste anche questo problema – non si tratta solo di questo. Il consumo di suolo, infatti, non avviene necessariamente con la scomparsa del terreno, ma con il mutamento della sua destinazione d’uso. Che produce più danni di quanti possiamo immaginare.

Il suolo, infatti, è consumato, quando a causa della cementificazione, delle concessioni e autorizzazioni edilizie esso viene sottratto all’uso agricolo, paesaggistico o di pascolo, per, appunto, finalità legate prevalentemente all’edilizia o alla viabilità stradale.

Qui però viene il difficile, perché l’obiezione la conosciamo: “eh, ma con l’edilizia si dà lavoro a tante persone, si rilancia l’economia, c’è l’indotto, si rivitalizzano aree abbandonate e degradate, ecc.!”

Occorre, in primo luogo, una smentita: non sempre l’edilizia ha questi effetti benefici. In molti casi è pura speculazione, non sempre viene portata a termine, contribuendo a degradare aree rurali che non avrebbero quei difetti e non sempre riesce a soddisfare in modo soddisfacente la domanda di lavoro. Quando non rimpolpa le casse della malavita.

Un secondo aspetto riguarda poi un punto fondamentale: non si può più ragionare in questi termini. Le politiche europee (e non solo) sul Green New Deal (e) ce lo hanno confermato: occorre ripensare le politiche economiche (pubbliche e private) in un’ottica di economia circolare che non consumi energie o risorse non più rinnovabili (il suolo è una di queste), ma produca ricchezza e sviluppo con attività che rispettino la finitezza dell’ambiente. È inutile invocare l’utilità socio-economica di cantieri, costruzioni, strade e grandi opere: queste possono essere portate avanti solo se non compromettono la limitatezza del pianeta terra.

Infine, bisogna citare qualche dato, per mostrare la gravità e le dimensioni del fenomeno:

Il consumo di suolo, il degrado del territorio e la perdita delle funzioni dei nostri ecosistemi continuano a un ritmo non sostenibile e, nell’ultimo anno, ogni secondo quasi due metri quadrati di aree agricole e naturali sono stati sostituiti da nuovi cantieri, edifici, infrastrutture o altre coperture artificiali. Il fenomeno, quindi, non rallenta neanche nel 2020, nonostante i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown, con più di 50 chilometri quadrati persi, anche a causa dell’assenza di interventi normativi efficaci in buona parte del Paese o dell’attesa della loro attuazione e della definizione di un quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale.

Le conseguenze sono anche economiche, e i ‘costi nascosti’, dovuti alla crescente impermeabilizzazione e artificializzazione del suolo degli ultimi 8 anni, sono stimati in oltre 3 miliardi di Euro l’anno che potrebbero erodere in maniera significativa, ad esempio, le risorse disponibili grazie al programma Next Generation EU.” (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), Sintesi del Rapporto sul Consumo di Suolo, 2021).

Come si arresta allora
questo consumo di suolo?

L’agricoltura è una risposta. Ma – e questo deve essere chiaro – deve trattarsi di agricoltura sostenibile e non intensiva (approfondimenti qui e qui).

La ragione è molto semplice: un suolo sano è un suolo ricco, quindi in grado di produrre ricchezza. Il suolo, infatti, ospita 1/4 della biodiversità biologica mondiale, che in questo caso non dobbiamo interpretare come le piante o gli animali che compongono l’ecosistema, ma come una serie di microrganismi invisibili che forniscono i nutrienti per gli alimenti.

Inoltre, un suolo sano filtra l’acqua adatta al consumo e immagazzina grandi quantità di carbonio come fanno le piante che vivono in superficie. Si tratta dunque di uno strumento fondamentale per combattere il cambiamento climatico, per ridurre l’inquinamento, per migliorare la qualità delle nostre vite.

Come ci stiamo muovendo? In Italia non tanto bene (si rinvia ai dati contenuti nel citato rapporto dell’Ispra), anche se alcuni Comuni hanno mostrato una certa sensibilità al tema. L’Europa non sembra sorda alla problematica e ha messo in piedi una Health soil strategy, che dovrà portare all’adozione di una normativa vincolante sul tema, entro il 2023.

La strategia europea fissa una serie di azioni da intraprendere entro il 2030, per giungere a una condizione di totale salute del terreno entro il 2050, e annuncia anche una nuova legge sulla salute del suolo entro il 2023.

L’iniziativa, non a caso, si inserisce all’interno delle strategie relative a Biodiversity e Green New Deal e mira a ridurre la desertificazione, incidere positivamente sul surriscaldamento climatico, e tutelare la biodiversità e gli ecosistemi, a vantaggio di produzioni alimentare sane e nutrienti e della tutela della salute umana, vegetale e animale.

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