Nel recente incontro internazionale a Davos, il presidente argentino Javier Milei ha esortato i leader mondiali ad abbandonare l’agenda socialista. Noto per le sue intemperanze anarco-capitaliste, Milei si è detto preoccupato per il destino dell’Occidente ormai in mano al marxismo. Ci sarebbe da sorridere ma è ormai una strategia della destra ultra-conservatrice spacciare gli interventi statali sopravvissuti alla furia neoliberista per avamposti del bolscevismo imperante. In tutti questi discorsi reazionari, da Berlusconi a Trump, da Orban ai no-vax, si contrappongono i diritti dell’individuo ad una spectre comunista che vorrebbe imporre al pianeta una dittatura totalitaria.

L’individuo, come la persona – che già Adorno diceva essere divenuta indistinguibile dalla sua imitazione pubblicitaria: la personalità – è ancora e sempre il crocevia degli impulsi reazionari. Che perfino nel periodo di massima disfatta e impotenza del socialismo si senta il bisogno di evocare e uccidere lo spettro di Marx è indicativo del modo di funzionare della paradossale psicologia gregaria dell’individualismo fascista.

La destra, il fascismo e il declino dell’individuo, il marxismo

Il fascismo ha da sempre compensato il declino dell’individuo nei processi oggettivi del tardo-capitalismo attraverso una mistica dell’individualità, un eroismo senza qualità, un significante vuoto della volontà di oltrepassamento della miseria che si auto-alimenta ma rifiuta ogni teoria che ne metta in luce l’impotenza e l’irrilevanza.

Da qui l’incessante, rituale e nevrotico bisogno di confutazione e pubblico motteggio del marxismo anche laddove, anzi soprattutto laddove, non se ne conosce alcun concetto. Perché, in un certo senso, ciò che la psicologia fascistoide intuisce è perfettamente vero: nella teoria e nel metodo di Marx c’è l’antidoto a quella esaltazione dell’io e a quella riduzione dell’essere sociale alle relazioni personali senza le quali essa sarebbe impossibile.

E come l’individuo impotente abbandonato ai meccanismi di mercato compensa la propria irrilevanza attraverso l’investimento libidico di figure superomistiche così esso ha anche bisogno di arci-nemici che sostanzino in un’immagine umana tutta la disumanità e la spersonalizzazione di cui sentono di essere vittime.

Marx viene infatti scelto come nemico e simbolo del falso con gli stessi criteri con cui Hitler e Mussolini vengono scelti come paladini del vero. Ho spesso osservato come il fascismo eserciti la seduzione del pacchiano, dell’esagerato e del kitsch che sono tratti caratteristici anche dei suoi leader, sempre più caricaturali nel loro tentativo pubblicitario di sfuggire all’apparenza di grigia normalità (dal mento volitivo del Duce al ciuffo esagerato di Trump).

Marx è perciò il simbolo di tutto ciò che deruba l’individuo della sua importanza fantasmatica e da lui deriva il marxismo che poi altro non è che la sintesi di ogni cosa che in questo delirio viene immaginato come nemico: dai neri ai gay, da Bill Gates ai rettiliani, dalle tasse al Grande Reset. Marx, come Soros, sono nomi dietro cui si cela il potere impersonale che ci vuole tutti uguali nel mare indistinto del politicamente corretto.

Anche la forza diabolica dell’impersonale non può essere immaginata che come persona da chi è malato di ipertrofia di sé stesso. Non a caso chi pensa e sente così è, quasi regolarmente, chi è totalmente indifferente alla sofferenza, all’oppressione e alla morte dell’altro.

“La crisi dell’individuo”, l’individualità, la filosofia sociale

Sull’argomento consiglio la lettura del libro La crisi dell’individuo di Theodor W. Adorno, a cura di Italo Testa (Ed. Diabasis, maggio 2010, pagine 168, euro 14,50) in cui lo stesso Testa, raccogliendo per la prima volta il corpus di scritti e frammenti sull’individuo elaborati da Adorno tra il 1940 e il 1954, permette di cogliere il ruolo chiave giocato dal pensatore tedesco nell’orientamento sub specie individuationis della teoria critica.

Gli inediti degli anni Quaranta, in particolare, inquadrano nella prospettiva dell’individualità il problema dell’elaborazione metodologica della filosofia sociale, e consentono di riscoprire il progetto, successivamente abbandonato, di una nuova antropologia. Gli inediti dei primi anni Cinquanta permettono quindi di apprezzare come la questione della crisi dell’individuo borghese nel mondo delle grandi organizzazioni sia rimasta per Adorno il nodo centrale per la messa a punto di una diagnosi delle patologie sociali della modernità e dei suoi dispositivi biopolitici di amministrazione della vita.

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