In questi giorni nei maggiori teatri italiani, sarà possibile assistere alla riscrittura de Il filo di Mezzogiorno (al Teatro India di Roma dal 20 al 29 maggio) tratto dal romanzo di Goliarda Sapienza, messo in scena da Mario Martone su adattamento di Ippolita Di Majo. Ho il privilegio e la fortuna di confrontarmi con entrambi.

Ippolita di Majo

Rewriters si occupa di narrare quanto più possibile la riscrittura in ogni sua declinazione: quali sono state le chiavi del suo riscrivere Sapienza?
Il mio è stato un lavoro di immersione progressiva nel romanzo. ‘Il filo di mezzogiornoè un libro complesso, scritto su diversi registri temporali che disorientano il lettore trasportandolo in mondi e situazioni diverse e lontane nel tempo. Nel lavoro psicoanalitico, fatto di regressione, rievocazioni, proiezioni, transfert, i vivi e i morti stanno insieme, nella lettura però questa compresenza può spiazzare. Con questa consapevolezza mi sono addentrata nelle pieghe del testo, l’ho letto più volte, poi ho iniziato a leggere tutto quello che ancora non conoscevo di lei e ho cominciato a tirare un filo, a cercare di districare la matassa di sentimenti e di emozioni incandescenti di cui è fatto il libro, per delineare un ritratto di lei e per lasciare emergere, con la maggiore chiarezza possibile, la forza di una relazione salvifica e distruttrice allo stesso tempo. Ho immaginato che l’azione potesse svolgersi in due diverse zone del palcoscenico che sono anche due ‘zone’ del mondo interno di Goliarda. La zona 1 è uno spazio vuoto, buio, onirico, una zona appartata e solitaria, sprofondata nei meandri dell’inconscio. La zona 2 invece è il luogo della realtà, della relazione, è la sua casa, il luogo in cui i fantasmi prendono corpo, ma sono arginati dall’incontro con il dato reale, è il posto in cui ogni giorno viene a farle visita l’analista che l’ha presa in cura.

Il filo di mezzogiorno è il racconto di una analisi riuscita o fallita a suo parere? L’esperienza analitica di Goliarda Sapienza si colloca agli albori della psicoanalisi italiana, erano anni di sperimentazione e di naufragi. Si tratta in principio di una relazione vitale, che ha del buono e l’aiuta a uscire dalla condizione tragica in cui gli elettroshock l’avevano precipitata, ma poi degenera, fallisce.

Goliarda è stata una grande scrittrice ma anche una insegnante notevole: quale eredità lascia secondo lei a chi voglia riscoprirla oggi?
La potenza della scrittura, la libertà del pensiero, la consapevolezza della scelta morale.

Mario Martone

L’adattamento di Ippolita di Majo ha previsto inizialmente due spazi di narrazione, come li ha teatralizzati?
Ho immaginato di sdoppiare la stanza di Goliarda, quella in cui, in modo anomalo rispetto a un setting psicoanalitico ortodosso, si svolgeva la sua terapia. E di sdoppiarlo specularmente: le stanze che lo spettatore vede affiancate sono in realtà due immagini riflesse. Dunque c’è un attore in più in questo meccanismo, ed è lo spettatore, è nella sua mente che si ricompongono le immagini.

A sua detta questa regia fa tesoro anche di una sua personale esperienza analitica, ce ne farebbe cenno?
È stata una esperienza breve, due anni, ma molto intensa e importante. Avevo una grande stima del mio analista, Andreas Giannakoulas, e mi piaceva moltissimo il suo accento greco.

Goliarda è stata un personaggio straordinario: scrittrice, insegnante, ladra, maschera tragica, buffona, disperata amante della vita e di tante modalità di amore: quale ha privilegiato nella direzione di Donatella Finocchiaro e che contrappunto ha incarnato Roberto De Francesco?  
Donatella Finocchiaro è un’attrice di straordinaria versatilità, dunque ideale per sfaccettare il personaggio di Goliarda che, lei ha ragione, è un vero e proprio prisma. Del resto l’adattamento di Ippolita di Majo è al tempo stesso un play e una biografia, l’equilibrio in cui stanno insieme nel testo i due aspetti è quello che mi ha convinto a affrontare la regia. E dunque, mentre il personaggio di Goliarda si apre anche biograficamente e noi possiamo volare con lei, quello dello psicoanalista interpretato da Roberto De Francesco è imprigionato nel play, ossia nella dinamica dell’analisi, e non veniamo a sapere nulla di lui, se non che è sposato e che il suo matrimonio va progressivamente in frantumi. Asimmetrie, geometrie del cuore e della mente che non diventano mai ordinate ma che non potrebbero esistere le une senza le altre.

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