Francisca Berton ci racconta Esperando el porvenir, lo spettacolo che porta in scena, al quartiere Appio Latino di Roma, domani e dopodomani.

Cosa significa per Francisca Berton oggi danzare e creare coreografie “senza attenersi al presente?”
Il flamenco si rifà ad una tradizione, seppur frutto meticcio di numerose influenze. Io lo reinterpreto ovviamente secondo il mio bagaglio, le mie conoscenze in generale sulla danza e secondo il mio percorso di spettatrice. Non posso che ammirare certe vecchie e nuove realtà, rifiuto le omologazioni e dopo anni ancora mi dispiaccio di fronte ad un’iconografia che riduce il flamenco a certo cliché. Il flamenco è il mio e il nostro linguaggio, oggi torniamo a interpretarlo essendo diversi, sapendo bene che abbiamo attraversato un ponte tra un “prima” e un “dopo”. E, dall’altro lato, ognuno di noi sta continuando la propria ricerca. Dobbiamo elaborare, è inutile rimuovere, secondo me. A volte non è proprio possibile semplificare. Chi si esprime col corpo o altro, non può fare a meno di “ascoltare” quello stato del nostro essere che prima non conoscevamo.

Da Godot in poi l’attesa è una delle categorie più interessanti del teatro: come l’ha declinata?
La mia non vuole in nessun modo avere la presunzione di essere comparata alle grandi e numerose opere che dell’attesa hanno fatto LA TEMATICA. Tutto nasce da riflessioni immediate e quotidiane. In una quotidianità stravolta per forza maggiore, tempo sospeso passato ad aspettare, aspettare e lavorare in vista di… Studiare, guardare la realtà attraverso una lente virtuale, quando invece il corpo con i suoi cambiamenti ha dettato tutti i miei ritmi di vita e le emozioni; il ‘sentire’ che fino ad allora aveva coinciso con la materia, le relazioni e le reazioni. Ho parlato a lungo con Paolo De Pascale, ci siamo trovati su molti punti, gli ho chiesto di mettere un ordine ed esprimere con le parole quello che avevamo esplorato. Ha scritto delle poesie meravigliose, alle quali non si può aggiungere nulla, ho potuto solo cercare movimenti per aderirvi. Ho aspettato semplicemente di tornare in una sala, lo so che sembra un non-senso: uscire da casa per entrare in un altro luogo chiuso. Ma si tratta di un luogo aperto, dove avvengono molte cose, ci sono persone, i corpi sono abitati, c’è un flusso continuo tra la musica e noi che risuoniamo come diapason. Il movimento o l’immobilità. Abbiamo dovuto scegliere ed io ho scelto il movimento in tutte le forme possibili, anche attraverso pellicole, racconti o libri, per muovermi attraverso altri. Con questo spettacolo vorrei descrivere questo spazio aperto, lasciare un punto di domanda sul  tema dell’attesa, rassegnazione o preparazione? E preparazione per cosa?

Il lavoro beneficia di un importante sostegno diplomatico, vuole parlarcene?
Abbiamo da anni un rapporto con la Oficina Cultural dell’Ambasciata di Spagna. Siamo felici di questa presenza che rappresenta il forte legame che abbiamo con la Spagna, con il flamenco e tutto ciò che ne consegue, il ballo, la musica, il canto, la letteratura, l’arte figurativa. Il flamenco è un’arte, è Patrimonio Immateriale dell’Umanità per l’Unesco dal 2010, amato e seguito in tutto il mondo, innegabilmente nato in Spagna. Questo riconoscimento ci rende orgogliosi.

Un cenno anche sul luogo che vi ospita: il neo rinato teatro di Villa Lazzaroni.
Il teatro è stato affidato dal VII Municipio tramite un bando a Fondamenta La Scuola dell’Attore/Teatro e Teatri con la direzione artistica di Giancarlo Sammartano, la riapertura è stata inaugurata in totale controtendenza rispetto alle ‘chiusure’ a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, dovute prima alla crisi economica poi al Covid. Abbiamo seguito da vicino tutto il processo, abbiamo gioito quando si è concluso, ci siamo immediatamente proposti per presentare questo nostro lavoro. E’ un ‘presidio culturale’, all’interno della Villa Lazzaroni; si deve accedere alla Villa per entrare nel teatro, è un regalo da scartare, un luogo aperto che incuriosisce.

Personalmente e come artista, Francisca Berton ritiene davvero che gli anni trascorsi abbiano restituito valore al presente nel suo quotidiano e al senso di un andare collettivo?
E’ una delle domande che mi faccio. Ad un primo sguardo verrebbe da obiettare che i ritmi, le priorità, l’aggressività, che non abbiamo imparato niente, ecc ecc…Però mi capita di parlare con persone che hanno cambiato stili di vita o se non altro hanno il dubbio che qualcosa vada cambiato. Questo mi fa avere fiducia. Forse non ci sono risposte ora alle mie domande, ci saranno chissà, forse è il momento di mettere da parte il sentimento della paura che ci isola e blocca e di partecipare.

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