In un libro di recente pubblicazione, intitolato Rethinking Food and Agriculture (Elsevier, 2021) e curato da Amir e Laila Kassam, i vari autori esplorano e mettono in luce alcuni fattori chiave del mondo dell’agroalimentare, analizzandoli sotto il profilo storico, etico, economico, sociale, culturale, politico e strutturale e soffermandosi sui maggiori problemi del settore, come l’insostenibilità delle produzioni, la malnutrizione, il degrado dell’ambiente, la perdita della biodiversità, il ruolo della scienza, l’insicurezza alimentare.

Tra i diversi temi trattati nel volume, vorrei soffermarmi su quello contenuto in un capitolo, particolarmente interessante e dirompente, che mi ha molto colpito: è scritto da Jonathan Latham (biologo, Executive Director del Bioscience Resource Project) ed è intitolato, icasticamente, The myth of a food crisis. La tesi di fondo è che la crisi alimentare, di cui si sente molto parlare ormai da alcuni decenni, in realtà sia un mito, un’invenzione, una fake news, potremmo dire. Il testo argomenta molto bene questa impostazione, con dati, statistiche e ragionamenti chiari e lineari. Peraltro si può scaricare gratuitamente online, qui.

Secondo Latham la narrazione diffusa che spiega i numerosi casi di denutrizione e malnutrizione nel mondo con la teoria della scarsità – ossia di una produzione agricola quantitativamente insufficiente – è, se non dolosamente falsa, quanto meno errata nei numeri. Basata su dati sbagliati e/o contraddittori e lontana dall’individuare il reale problema, ossia la povertà, la mancanza di strumenti per accedere al cibo, che di per sé, sarebbe sufficiente a sfamare tutti (questa è peraltro la tesi di un celebre scritto dell’economista Amartya Sen: Poverty and famine, Oxford, Clarendon, 1981).

Il testo di cui vi parlo oggi prende le mosse da alcuni rapporti della FAO, come il World Agriculture Towards 2030/2050, del 2012. In questo, come in altri documenti analoghi, si legge della necessità di incrementare la produzione agricola (fino al 70%, addirittura) al fine di risolvere il problema della fame nel mondo. Questo approccio è in primo luogo contraddetto da rapporti di altre organizzazioni internazionali, peraltro collegate alla FAO, come quello dell’International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development (IASTD), Agriculture at a crossroad) che sottolinea invece l’importanza di intervenire su redistribuzione e ricchezza per favorire l’accesso al cibo ed evidenzia che un aumento della produttività agricola aumenterebbe anche i danni sociali e ambientali, segnatamente nei confronti di quelle popolazioni che più soffrono a causa di malnutrizione e denutrizione.

In queste valutazioni occorre sempre citare un Rapporto della Banca Mondiale (H. Herren et al., WBI Global Dialogue on Adaptation and Food Security, World Bank Institute, 2011), in verità un po’ datato, ma in fin dei conti ancora attuale visto che il sistema agricolo non è cambiato, nel quale si legge che l’attuale produttività agricola è sufficiente a sfamare 14 miliardi di persone, ossia il doppio dell’attuale popolazione mondiale. Nel resto del lavoro Latham contesta sia i modelli per misurare e valutare i vari sistemi agroalimentari, sia l’efficienza di questi ultimi nello sfamare le popolazioni, soffermandosi sulla crescita della produzione di biocarburanti (che sottrae cibi a chi ne ha bisogno, favorendo deforestazione e sfruttamento dei suoli, soprattutto nei paesi in via di sviluppo), sull’inefficienza dei mercati agricoli, sull’inutilità di valutare la malnutrizione solo calcolando le calorie dei vari alimenti, sulla sottovalutazione degli stock di riserva che potrebbero essere adoperati.

Ne emerge un quadro preoccupante, che mostra come, nel 2018, anche se la produzione agroalimentare è cresciuta e sono persino diminuiti i prezzi dei cibi, il numero delle persone malnutrite ha comunque raggiunto la cifra di 821 milioni di unità (p. 105). In conclusione, il capitolo evidenzia come questi approcci finiscano per avere un effetto determinante sul modo di fare agricoltura nel mondo, ossia incentivando e sviluppando ulteriormente l’agro-industria; incrementando l’uso di pesticidi, la diffusione degli Organismi Geneticamente Modificati, le monocolture; aumentando gli allevamenti intensivi.

A fronte di tutto ciò, è necessario fornire una contro-narrazione, come fa Latham, che si basa sulla non correttezza di queste valutazioni e che si sofferma invece sull’utilità e la forza dell’agricoltura familiare, di piccola scala ed ecologica. Occorre quindi insistere sulla multidimensionalità dei sistemi agricoli, che non sono monadi isolate, ma si intrecciano con altri sistemi e vanno a condizionare una pluralità di interessi: l’ambiente, le condizioni sociali, il lavoro, la cultura, i rapporti interpersonali. In questo senso si deve privilegiare una visione olistica che non guardi solo alle quantità prodotte, ma consideri anche la qualità delle produzioni, l’impatto climatico e ambientale, le connessioni con il territorio.

Per fortuna, gli strumenti per portare avanti questa contro-narrazione sulla malnutrizione ci sono: come dimostra il testo citato, e come si legge proprio sul sito della stessa FAO, nella sezione dedicata al Family Farming. Un altro testo, recente, ci viene in soccorso (N. McKeon, FOOD GOVERNANCE. Dare autorità alle comunità. Regolamentare le imprese, Ecologica, 2020), ove, tra le altre cose, si rilancia l’agricoltura sostenibile e di piccola scala, segnalando che nel mondo i piccoli produttori sono responsabili per il 70% del cibo consumato e della maggior parte degli investimenti in agricoltura.

Ed è proprio con una frase dell’autrice di quest’ultimo volume che voglio lasciarvi:

“il regime alimentare guidato dalle corporation è potente, ma non invincibile. Le crepe nella sua corazza si stanno approfondendo. Tale regime, esteso a livello globale, non provvede infatti alla sicurezza degli alimenti su scala mondiale, come si pensava che avrebbe fatto”.

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