Edgar Allan Poe, scrittore, saggista e critico letterario statunitense è considerato l’iniziatore della letteratura dell’orrore e del romanticismo dark. Spesso definito il genio pazzo probabilmente per via dell’abuso di alcol e sostanze stupefacenti, i suoi racconti in stile gotico ebbero poca fortuna in patria fino alla pubblicazione del poema The Raven, (Il Corvo) nel 1845.

Ne Il Corvo Poe segue la frenesia crescente di un giovane studente che piange la morte della sua amata Lenore. In una notte di tempesta il sonno del protagonista è disturbato da un corvo nero che vola nella sua stanza e va ad appollaiarsi sopra una statua bianca di Pallade emettendo un grido: Nevermore.
L’opera sin da subito lo pose sotto i riflettori esponendolo anche ad aspre critiche da parte di numerosi scrittori, forse a causa delle tematiche macabre dei suoi versi, così nel 1846 decise di pubblicare La filosofia della composizione.

Quest’impressionante saggio apparso per la prima volta sul Graham’s Magazine, offre un’analisi dettagliata del processo di composizione proprio della poesia.
Poe spiega che la maggior parte dei poeti preferiscono lasciar credere che i loro componimenti siano frutto di un’estatica intuizione e rabbrividiscono all’idea che il pubblico possa sbirciare dietro le quinte, quindi nell’intento di svelare i trucchi dell’histrio letterario, ripercorre le fasi del processo compositivo di The Raven evidenziando come nessuna scelta stilistica sia in alcun modo attribuibile al caso.

L’autore comincia prendendo in considerazione un effetto, tenendo sempre conto dell’originalità. La prima cosa presa in esame è la lunghezza: una poesia troppo lunga richiederà più di una sessione di lettura e ci vedrà costretti a rinunciare all’effetto che deriva da un’impressione unitaria quindi la brevità della poesia sarà direttamente proporzionale all’intensità dell’effetto perseguito. Secondo Poe, infatti, la poesia è tale solo se eccita e eleva l’animo, e tutti gli eccitamenti intensi sono, per necessità fisica, brevi.

Quell’intensa e pura elevazione dell’anima è propria della Bellezza, indicata dall’autore come territorio proprio della poesia. Per far leva sulle anime più sensibili l’autore decide di usare il tono della tristezza e della malinconia e di inserire una parola chiave nella costruzione della poesia: il refrain. Universalmente impiegato, il refrain o ritornello, deve la sua efficacia alla forza della monotonia, sia di suoni che di pensiero; un piacere che nasce soltanto dal senso di identità e ripetizione. Al fine di produrre effetti sempre rinnovati Poe decise che il refrain ideale consisteva di una sola parola che avrebbe formato la chiusa di ogni strofa. Una simile chiusa, per avere forza, doveva essere sonora, prolungata e il più possibile coerente col tono malinconico scelto; così decide che la parola “Nevermore” (mai più) fosse quella ideale perché contenente la “o” lunga come vocale più sonora e la “r” come consonante più prolungabile. Ma chi pronuncerà quella fatidica parola? Un essere umano non ha razionalmente motivo di ripetere monotonamente una singola parola, da qui l’idea di concepire un corvo (uccello del malaugurio e in linea con il tono prefissato) che per natura non sa parlare ma ha comunque qualcosa da dire: “Nevermore”.

Fra tutti gli argomenti il più malinconico è sicuramente la Morte e quando questa si allinea intimamente con la Bellezza allora succede che:

la morte di una bella donna è, indiscutibilmente, l’argomento più poetico al mondo

E come una cornice fa con un quadro, Poe circoscrive l’azione in un unico spazio per ottenere l’effetto di un evento isolato, l’ambiente è la stanza dello studente piena dei ricordi dell’amata Lenore. La tempesta spinge il corvo a cercare rifugio e così vola attraverso la finestra della camera per posarsi sulla statua di Pallade con un frullìo d’ali spingendo il ragazzo stupito a porgli delle domande, dapprima in tono scherzoso e poi sempre più tragico creando angoscia nel lettore, fino al momento del dénouement – scioglimento – in cui l’uccello risponde Nevermore alla domanda dell’amante se mai riuscirà ad incontrare la sua donna in un altro mondo. L’ultima strofa rappresenta il culmine di un climax ascendente di disperazione, poiché il corvo, immobile sulla statua, diviene ora il simbolo di un doloroso e duraturo ricordo.

L’uccello rimane lì a significare non solo un dolore che non si estinguerà mai ma anche l’estetica della composizione di classico e romantico dove il nero notturno dell’uccello si sposa drammaticamente, come un frammento di notte, un pezzo di inconscio incontrollabile, con il bianco della dea saggezza, della chiara visione illuminata. Al centro di tutto troviamo la dicotomia fra Eros e Thànatos, la morte che prende il posto dell’amore facendo del dolore il sentimento predominante. Il ragazzo infatti, non pone le domande poiché crede nella natura profetica o demoniaca dell’animale ma per trarre dalla sua risposta quel piacere morboso che deriva dal dolore più intollerabile.

Per approfondire: Edgar Allan Poe – Il Corvo e altre poesie, Feltrinelli 2020

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